Perché si configuri il reato è sufficiente la mera emissione del documento, non occorrendo anche la consapevolezza del meccanismo di frode finalizzata a favorire l’altrui evasione.
Qualora la fattura indichi un ammontare dell’operazione e/o dell’Iva superiore rispetto a quello reale, sorge sempre il debito d’imposta per l’intero ammontare indicato e, dunque, anche in caso di emissione effettuata per operazioni oggettivamente inesistenti, l’emittente dovrà sempre corrispondere l’intero importo.
Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza n. 35623 del 29 agosto 2016.
La vicenda
Il Tribunale di Genova ha dichiarato un imprenditore edile responsabile del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (articolo 8, Dlgs 74/2000). In particolare, veniva contestato al contribuente di aver avuto tale condotta dal 2004 al 2006, per consentire a una società cooperativa a responsabilità limitata, utilizzatrice, di evadere le imposte sui redditi e l’Iva, agendo in concorso con altri limitatamente ad alcune delle fatture, per un complessivo importo superiore a 154.937 euro. Secondo l’accusa, l’imputato aveva aperto la partita Iva senza però dare mai seguito all’esercizio di alcuna impresa, con il fraudolento intento di ottenere facili guadagni emettendo fatture inesistenti, ancorché spinto da stringenti necessità economiche. Il giudice di primo grado lo ha condannato, riconoscendogli tuttavia le attenuanti generiche per avere commesso il fatto in stato di necessità economica. La Corte d’appello, invece, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, ha escluso le attenuanti generiche concesse in primo grado, ha aumentato la pena della reclusione a lui inflitta e ha disposto la pubblicazione della sentenza sul sito del ministero della Giustizia e non sul quotidiano.
L’uomo ha proposto ricorso per cassazione, lamentando (anche) che la Corte territoriale:
- aveva utilizzato le dichiarazioni da lui rese nel procedimento a carico di un coimputato (nei cui confronti si era proceduto separatamente con giudizio abbreviato e la cui sentenza di condanna era stata acquisita agli atti), in quanto coincidenti con quelle rese dallo stesso coimputato e relative all’esecuzione di lavori mai effettuati per scelta unilaterale del committente
- aveva violato l’articolo 192 cpp, con riferimento all’attendibilità dei testimoni dell’accusa
- non aveva accertato l’elemento soggettivo del reato.
La Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che l’articolo 8 del Dlgs 74/2000 “… è norma che incrimina la falsità ideologica e non quella materiale della fattura e punisce, con espressione inequivoca, chi ‘emette o rilascia’ fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; la condotta vietata va, dunque, riferita al documento ‘fattura’ come qualificato dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, o agli ‘altri documenti’ cui si riferisce la norma in esame…“.
La sentenza
I giudici di legittimità hanno esaminato la sentenza impugnata con riferimento sia al compendio probatorio valutato dai giudici di merito sia alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato.
Con riferimento alle prove acquisite, hanno precisato che le dichiarazioni dell’imputato, oltre che le deposizioni della Guardia di finanza, non costituivano le prove principali a suo carico. Dalla lettura della sentenza impugnata, infatti, emergeva che l’affermazione di responsabilità dell’imputato si basava anche sulla “documentazione acquisita”, che evidenziava seri dubbi sull’effettività delle prestazioni fatturate dalle imprese individuali (visti la genericità delle descrizioni, il numero notevolmente ravvicinato di emissioni e il mancato pagamento delle fatture stesse), soprattutto perché uno dei coimputati, dipendente come lui della cooperativa, aveva ammesso di non aver istituito alcuna impresa edile e che l’apertura della partita Iva era stata operata solo per ottenere facili guadagni mediante l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, su suggerimento del contribuente al quale aveva consegnato il timbro con i dati della propria impresa.
Dopo aver riportato tali elementi, la Cassazione ha affermato che, nella fattispecie esaminata, non poteva dedursi violazione dell’articolo 192 cpp, poiché, tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso (articolo 606 cpp), non rientravano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni, l’indagine sull’attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione (Cassazione 87/1990). Il giudice di legittimità, infatti, doveva limitarsi a verificare che il giudice di merito aveva rispettato i criteri dettati dall’articolo 192 cpp in materia di valutazione delle prove. Tale controllo, eseguito mediante esame della gravità, precisione e concordanza degli indizi e facendo ricorso ai parametri della completezza, della correttezza e della logicità del discorso motivazionale, veniva superato agevolmente dalla sentenza impugnata (Cassazione 20474/2003).
Con riferimento al mancato accertamento dell’elemento soggettivo del reato, poi, la Cassazione ha affermato che, per incriminare il soggetto emittente le fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, l’accusa non doveva dimostrare anche la consapevolezza del meccanismo fraudolento finalizzato a permettere l’altrui evasione. Ciò sia perché la consapevolezza di lui è sempre riferita all’aspetto cartolare (è sempre punita la falsità ideologica e non quella materiale della fattura) sia perché l’esposizione dell’Iva nella fattura del proprio fornitore, da sola, basta per consentire al cliente di detrarre la relativa imposta e di vantare così un credito nei confronti dell’Erario per l’ammontare indicato. Nella fattispecie al suo vaglio, la Cassazione ha evidenziato che la Corte territoriale aveva ricavato la dimostrazione che l’imputato era consapevole del meccanismo fraudolento, finalizzato all’evasione delle imposte e realizzato attraverso l’emissione delle fatture, proprio dal “facile guadagno” che ne derivava, grazie all’indebito vantaggio fiscale procurato alla cooperativa che, in tal modo, realizzava la “provvista” per remunerare l’imputato, dichiaratamente spinto a delinquere dalle impellenti necessità economiche in cui si era venuto a trovare nel 2006.
I giudici di piazza Cavour hanno quindi concluso che se, ex articolo 21, comma 7, Dpr 633/1972, viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi dell’operazione o delle imposte relative sono indicate in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare evidenziato corrispondente alle indicazioni della fattura, anche in seguito all’emissione di documenti per operazioni in tutto o in parte oggettivamente inesistenti, nonché in caso di soprafatturazione (Cassazione, n. 50628/2014).