presunzioni legaliPur non potendo costituire di per sé fonte di prova per i reati fiscali, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie hanno un valore indiziario sufficiente a integrare il fumus commissi delicti e a giustificare, quindi, l’applicazione di una misura cautelare reale. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza n. 25451 del 20 giugno 2016.

 

I fatti

 

Il Tribunale di Pordenone ha annullato il decreto con il quale il Gip aveva disposto il sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente (sino alla concorrenza della complessiva somma di circa 1.863.000 euro), dei beni mobili e immobili di un imprenditore. L’uomo era indagato:

 

 

  • per il reato ex articolo 4, Dlgs 74/2000, avendo omesso di dichiarare, nel corso degli anni di imposta 2009, 2010 e 2011, elementi reddituali a lui pervenuti tramite rimesse bancarie operate sul suo conto corrente da una società di diritto croato (si trattava di importi superiori a un milione di euro per il 2009, e superiori a 600mila euro per ciascuno dei due anni successivi)
  • per il reato ex articolo 11, Dlgs 74/2000, avendo compiuto, immediatamente dopo l’inizio della attività di verifica fiscale da parte della Guardia di finanza, delle cessioni simulate dei beni al figlio, al fine di sottarsi al pagamento delle imposte.

 

 

In particolare, il Tribunale ha ritenuto che la presunzione di attrazione a reddito delle rimesse bancarie (non indicate in dichiarazione e delle quali l’interessato non aveva saputo giustificarne l’irrilevanza tributaria) poteva essere valida in ambito tributario, ma non era idonea a fondare un giudizio rilevante sotto il profilo penalistico.

 

Contro l’ordinanza, ha presentato ricorso per cassazione il procuratore della Repubblica, lamentando che:

 

 

  1. ai fini dell’adozione della misura richiesta, era sufficiente l’esistenza del fumus commissi delicti
  2. nell’ordinanza impugnata non vi era alcun riscontro documentale comprovante che le somme versate all’imprenditore dalla società croata erano state a lui date dalla società come restituzione di precedenti anticipazioni e finanziamenti, e che, quindi, non costituivano reddito
  3. la richiesta di sequestro era stata formulata non solo per la commissione del reato di dichiarazione infedele ex articolo 4, Dlgs 74/2000, ma anche in relazione al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte ex articolo 11 dello stesso decreto legislativo
  4. proprio rispetto a tale ultima fattispecie, il giudice del riesame non aveva preso alcuna posizione rispetto a quanto emerso dagli atti.

 

 

La Cassazione ha accolto il ricorso e ha affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’articolo 32 del Dpr 600/1973 “…prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi e a fronte della quale il contribuente che eserciti un’impresa, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici…“.

 

La sentenza

 

I giudici di legittimità hanno ritenuto errati sotto più profili gli argomenti utilizzati dal Tribunale. In primo luogo, la Corte ha rilevato che era priva di fondamento l’affermazione secondo la quale la presunzione di redditività delle somme versate sui conti correnti bancari sussisteva solo per le movimentazioni dei conti intestati a persone giuridiche. A tale riguardo, infatti, la Cassazione ha precisato che, invece, tale conclusione era applicabile a qualunque contribuente-imprenditore, a prescindere dalla sua forma giuridica (persona giuridica ovvero, come nella fattispecie, persona fisica). Ciò in quanto, in materia di accertamento fondato su verifiche di conti correnti bancari, è consolidato il principio secondo il quale l’onere probatorio dell’Amministrazione finanziaria è soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti stessi (articolo 32, Dpr 600/1973), mentre sussiste un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (Cassazione, n. 2781/2015).

 

È lui, infatti, a dover dimostrare, con indicazioni precise e puntuali, che le movimentazioni bancarie non sono riferibili a operazioni imponibili (Cassazione, nn. 18081/2010 e 25502/2011). Ma non può limitarsi ad affermare di avere fatto affluire su un proprio conto corrente bancario, nell’esercizio della propria attività, somme affidategli da terzi in amministrazione (Cassazione, n. 13819/2007) né può riferire di ipotetiche distinte causali delle somme affluite sui propri conti correnti. Piuttosto, al fine di superare la presunzione posta dall’articolo 32, deve provare la riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni ovvero l’estraneità delle stesse alla sua attività (Cassazione, n. 21303/2013). E, come chiarito dalla Cassazione, lo può fare con qualunque mezzo, anche attraverso presunzioni semplici. Sarà poi il giudice a “…individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati…” e ad apprezzarne “…il significato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative…” (Cassazione, nn. 25502/2011 e 4829/2015).

 

Ma non basta. La Corte ha concluso che l’ordinanza impugnata era viziata anche in ordine all’irrilevanza, nel procedimento penale, delle presunzioni legali tributarie. Diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, la Cassazione ha puntualizzato che, per l’applicazione di una misura cautelare reale, non è necessario che il compendio indiziario si configuri come grave ex articolo 273 cpp (Cassazione, n. 45591/2013). Bastano, invece, le sole presunzioni previste dalle norme tributarie poiché, in assenza di elementi di segno contrario e purché coerenti con l’ipotesi criminosa, il loro valore indiziario è sufficiente a integrare il fumus commissi delicti (Cassazione, nn. 7078/2013 e 2006/2015).

 

Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che il fumus era di certo presente con riferimento a entrambe le fattispecie oggetto di indagine, in quanto il contribuente, da un lato, non aveva prodotto la documentazione idonea a provare che le somme versate dalla società croata corrispondevano a restituzione di precedenti finanziamenti; dall’altro, simulando cessioni di beni al proprio figlio a seguito delle attività ispettive della Guardia di finanza, si era sottratto al pagamento delle imposte.