La giurisprudenza di legittimità nazionale ha recepito i principi elaborati dalla Corte di giustizia in materia di requisiti del diritto di detrazione, riconducendoli, tuttavia, nelle categorie concettuali nazionali. In particolare, la violazione degli obblighi di registrazione degli acquisti ha carattere formale e, in presenza dei requisiti sostanziali, non può comportare la perdita del diritto alla detrazione (Cassazione, sentenza 18925/2015). Tuttavia, come precisato in più occasioni dalla Corte suprema, a ben diversa conclusione devesi, per contro, pervenire – com’è di tutta evidenza – nella diversa ipotesi in cui le violazioni formali siano di tale entità da impedire la realizzazione degli obiettivi – del pari perseguiti dall’Unione europea – di assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e di evitarne l’evasione (Cassazione, sentenze 20698/2014, 16702/2005, 28333/2005, 662/2014).
Secondo una parte della giurisprudenza di Cassazione, tuttavia, le norme che stabiliscono tempi e modalità della registrazione delle fatture Iva (Dpr 633/1972, articoli 23 e 25) pongono in essere un obbligo generalizzato di annotazione, fissando modalità ben precise, che non trovano deroga in altre disposizioni di legge, essendo collegate alle scansioni temporali dei versamenti dell’Iva (Cassazione, sentenze 11662/2001 e 2379/2006). Secondo tale orientamento giurisprudenziale, le registrazioni, anche in caso di operatività del sistema del reverse charge, assolvono una funzione sostanziale in quanto, proprio compensandosi a vicenda, comportano che non permanga alcun debito nei confronti dell’amministrazione fiscale e in quanto rendono possibili i controlli fiscali sulle cessioni successive. Tale compensazione-neutralizzazione del debito di imposta non è idonea a far ritenere che l’obbligo di autofatturazione abbia natura meramente formale. Non è sufficiente a tal fine, infatti, il rilievo che, per effetto del meccanismo del reverse charge, dall’operazione pur regolarmente attuata dal punto di vista fiscale non derivi alcun versamento né alcun obbligo di versamento al fisco a carico del cessionario e quindi nessun introito per l’Amministrazione finanziaria (Cassazione, sentenza 24022/2013).
Con riguardo al rapporto tra l’Iva assolta a monte e operazioni attive a valle (“inerenza” o “afferenza”), secondo la giurisprudenza nazionale, un’operazione economica isolata non diretta al mercato, compiuta da una società commerciale, quand’anche l’atto costitutivo o lo statuto sociale prevedano che il sodalizio possa compiere operazioni di acquisto, ristrutturazione, vendita o – come nel caso concreto – locazione d’immobili, di per sé sola non può valere a dare consistenza a un’attività imprenditoriale capace di giustificare l’inerenza dell’operazione passiva all’attività svolta. La previsione statutaria relativa a tali attività riveste, infatti, ai fini della detraibilità del tributo assolto sulle operazioni passive, un valore meramente indiziario circa l’inerenza dei relativi costi all’effettivo esercizio dell’impresa, ai sensi del Dpr 633/1972, articolo 19, comma 1; salvo che la società dimostri o che l’operazione, apparentemente singola, non sia isolata e che sia inserita in una specifica attività imprenditoriale, oppure che essa s’inserisca in un’attività immobiliare vera e propria, così che – in ambedue i casi – sia destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (Cassazione, sentenze 3205/2015, 1859/2014, 4157/2013, 7344/2011).
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione, il Dpr 633/1972, articolo 19, comma 1, richiede, oltre alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene stesso rispetto a detta specifica attività, e inoltre, non introducendo una deroga ai comuni criteri in tema di onere della prova, lascia la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato (Cassazione, sentenza 11425/2015; conformi 6200/2015, 25986/2014, 3706/2010). Se è vero che il fatto che beni acquisiti per fini legati a un’attività economica non siano immediatamente impiegati per detta attività, in linea generale, non è idoneo a negare il diritto a detrazione dell’Iva assolta a monte, al contrario tale effetto non può conseguire a un successivo mero utilizzo dei beni per fini economici che non appaiono legati all’attività sociale (cfr Cassazione, sentenze 14767/2015, 4517/2000).
L’inerenza esige che, rispetto all’Iva sulle operazioni attive, resti detraibile esclusivamente l’imposta relativa all’acquisto di beni necessari per l’esercizio vero e proprio dell’impresa, effettivamente destinati, cioè, dall’imprenditore alla realizzazione degli scopi produttivi programmati; in guisa tale che il requisito della “inerenza” all’esercizio d’impresa deve essere identificato non già da un generico riferimento a futuri proficui rapporti d’affari, sebbene sulla base del raffronto tra l’operazione passiva e quelle attive, dovendo risultare assolta la prova – a onere dell’imprenditore – della strumentalità della prima rispetto alle seconde. Può in questo senso confermarsi che, per il riconoscimento del diritto alla detrazione, l’inerenza va intesa alla luce del nesso di strumentalità del bene rispetto alla specifica attività d’impresa. La compatibilità con l’oggetto sociale di spese relative alla compravendita e/o alla ristrutturazione di immobili costituisce, rispetto alla detraibilità del tributo assolto sulle operazioni passive, elemento puramente indiziario della loro inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, valutabile, pertanto, dal giudice di merito insieme con altre circostanze, idonee a formarne il convincimento circa l’effettiva inerenza delle medesime operazioni passive all’espletamento della progettata attività imprenditoriale, all’interno di un criterio di ripartizione che vede onerata della prova la società” (Cassazione, sentenza 17299/2014, 4157/2013).
Il pagamento dell’Iva all’importazione effettuato dalla società controllante che non aveva alcun valido titolo a importare le merci destinate alle società controllate titolari delle licenze di importazione si risolve in un adempimento di un debito altrui, per il quale la società controllante potrà eventualmente agire nei confronti delle proprie controllate, ma non può certo dare luogo alla reclamata detrazione ai sensi del Dpr 633/1972, articolo 19. Per tale motivo, non pare potersi riconoscere la detrazione dell’Iva corrisposta se si considera che detto diritto presuppone, proprio alla stregua dell’articolo 18, comma 1, lettera b), della sesta direttiva Cee, riprodotto dall’articolo 178, lettera d), della direttiva 2006/112/Cee, “il possesso di un documento che lo indichi quale destinatario o importatore” (Cassazione, sentenza 19742/2013).
La Corte di cassazione, coerentemente ai principi unionali, ha riconosciuto l’inerenza dell’Iva assolta o dovuta nell’ambito di un’attività preparatoria all’avvio della vera e propria attività economica. Se l’inerenza di un’operazione ai fini Iva comporta che essa sia funzionale all’attività imprenditoriale formalizzata nell’oggetto sociale, è tuttavia tale anche quella finalizzata alla costituzione delle condizioni necessarie perchè l’attività tipica possa concretamente iniziare, e quindi anche le attività meramente preparatorie che, per definizione, vengono poste in essere in una fase in cui non vi è ancora produzione di ricavi (Cassazione, sentenze 3106/2014, 23400/2010, 1765/2008, 1863/2004, 5739/2005, 4242/2007). In ordine agli acquisti di beni (come nella specie) occorre accertare, ai fini della detraibilità dell’imposta, che dette operazioni passive siano effettivamente inerenti a tale esercizio, cioè compiute in stretta connessione con le finalità imprenditoriali, senza tuttavia che sia richiesto quello concreto della relativa attività, con la conseguenza che la detrazione dell’imposta spetta, ricorrendo la detta condizione, anche nel caso di assenza di compimento di operazioni attive (Cassazione, sentenze 8692/2011, 23400/2010, 11765/2008, 8583/2006).
Con riguardo alle società commerciali, la Corte suprema ha, altresì, specificato che, mentre le cessioni di beni da parte di società commerciali sono da considerare “in ogni caso” – cioè senza eccezioni – effettuate nell’esercizio di impresa, per gli acquisti di beni da parte delle stesse società il requisito dell’inerenza, ai fini della detraibilità dell’imposta, non può presumersi sulla base della sola qualità di imprenditore dell’acquirente, essendo onere di chi invoca la detrazione provare che tali operazioni passive sono state effettivamente compiute nell’esercizio d’impresa, cioè in stretta connessione con le finalità imprenditoriali” (Cassazione, sentenze 27691/2013, 3706/2010).
L’esercizio del diritto a detrazione è subordinato al possesso di una fattura corretta
Importante principio che caratterizza il sistema europeo di funzionamento del tributo è il principio di cartolarità, in base al quale chiunque esponga l’Iva in una fattura o in ogni altro documento che ne fa le veci è debitore di tale imposta. Tale principio, sancito dall’articolo 203 della direttiva Iva, mira a eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale che può derivare dal diritto a detrazione previsto agli articoli 167 e seguenti di tale direttiva (Corte di giustizia, sentenza 18 giugno 2009, Stadeco, C‑566/07). In considerazione di tale scopo, detto obbligo è limitato dalla possibilità, che dev’essere prevista dagli Stati membri nei loro ordinamenti giuridici interni, di rettificare le imposte indebitamente fatturate, qualora colui che ha emesso la fattura dimostri la sua buona fede o abbia completamente eliminato, in tempo utile, il rischio di perdita di gettito fiscale (Corte di giustizia, sentenza: 31 gennaio 2013, causa C‑642/11 e C‑643/11, LVK).
Secondo tale orientamento della Corte di giustizia, tuttavia, il diritto alla detrazione implica indefettibilmente la effettiva debenza della imposta indicata in fattura, non essendo pertanto sufficiente a consentire l’esercizio del diritto alla detrazione la mera indicazione in fattura della imposta qualora questa non corrisponda a un’operazione determinata, perchè è più elevata di quella dovuta per legge o perchè l’operazione di cui trattasi non è soggetta all’Iva. È compito delle autorità e dei giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione ove sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che lo stesso diritto è invocato fraudolentemente o abusivamente. Tale situazione si verifica nel caso di evasione fiscale commessa dallo stesso soggetto passivo, ma anche quando il soggetto passivo “sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’Iva”.
A tal fine, la giurisprudenza comunitaria ha richiamato la nozione di “buona fede” del soggetto passivo – da intendersi quale ignoranza incolpevole in ordine agli accordi fraudolenti volti alla evasione dell’Iva intercorsi tra il soggetto cedente/commissionario che ha emesso la fattura e i soggetti intervenuti nelle operazioni precedenti o successive – e che si sostanzia nel principio secondo cui “gli operatori che adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte della frode, devono poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla detrazione dell’IVA pagata a monte” (Corte di giustizia, sentenze: 11 aprile 2013, C-138/12, Rusedespred OOD; 31 gennaio 2013, C-642/11, Stroy trans; 21.6.2012 cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahageben kft; 6.9.2012 causa C-324/11, Gabor Toth; 18 giugno 2009, C-566/07, Stadeco; 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken; 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strobel).
I giudici europei hanno, altresì, chiarito che, se è vero che un tale soggetto passivo può vedersi obbligato, quando disponga di indizi che consentono di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione, ad assumere informazioni sull’operatore presso il quale intende acquistare beni o servizi al fine di sincerarsi della sua affidabilità, l’amministrazione tributaria non può tuttavia esigere in maniera generale che detto soggetto passivo, da un lato, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni a livello degli operatori a monte, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio di tale diritto disponesse dei beni di cui trattasi e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva, o, dall’altro lato, disponga di documenti a tale riguardo (Corte di giustizia, sentenze: 31 gennaio 2013, C-642/11, Stroy trans; 21.6.2012 cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahageben kft)
Sul piano dell’onere della prova, i giudici europei hanno affermato che tocca a chi chiede la detrazione dell’Iva provare che ricorrono i presupposti per fruirne e l’amministrazione tributaria, qualora constati che il diritto a detrazione sia stato esercitato fraudolentemente, è autorizzata a chiedere, retroattivamente, il rimborso delle somme detratte (Corte di giustizia, sentenze: 29 marzo 2012, C-414/10, Valeclair SA). È possibile negare a un soggetto passivo il beneficio del diritto a detrazione solamente qualora si dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che detto soggetto passivo, al quale sono stati ceduti o forniti i beni o i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava a un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’Iva commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di tali cessioni o prestazioni (Corte di giustizia, 6 settembre 2012, Tóth, C‑324/11).
Secondo la Corte di giustizia, infine, non è compatibile con il diritto Ue, relativo all’Iva, una normativa nazionale che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’Iva dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’Iva, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare (Corte di giustizia, sentenza: 22 ottobre 2015, causa C‑277/14).