sanzioneCon l’ordinanza 1024 del 20 gennaio 2016, la Cassazione ha statuito che la frode dell’amministratore non esime la società dal pagamento delle sanzioni. I giudici della Corte suprema affermano, infatti, che l’amministratore e il direttore generale non sono soggetti “terzi” rispetto alla società, ma rappresentano la stessa.

 

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento, relativo a Irpeg-Irap-Iva-sanzioni, emesso dall’Amministrazione finanziaria e notificato alla società per il recupero di costi indebitamente dedotti e irrogazione delle relative sanzioni.

 

La contribuente ricorreva dinnanzi alla Commissione tributaria provinciale, asserendo che “l’amministratore delegato ed il direttore generale avevano posto in essere delle condotte fraudolente ai danni della società, inserendo in bilancio dei costi privi di controprestazione ed in relazione ai quali erano stati effettuati pagamenti che configuravano il reato di appropriazione indebita commesso dai predetti soggetti. L’amministratore ed il direttore avevano infatti fatto inserire in contabilità dei costi fittizi e avevano fatto eseguire alla società dei pagamenti a favore di imprese terze, che, però, nessuna controprestazione avevano fornito alla società”.

 

A giudizio della ricorrente, sussisteva causa di non punibilità nei suoi confronti, atteso che il maggior imponibile accertato era emerso a fronte di un comportamento fraudolento commesso dai predetti soggetti e, quindi, il fatto, puntualmente denunciato all’autorità giudiziaria, era imputabile esclusivamente a terzi ovvero all’ex amministratore e all’ex direttore generale; pertanto, non avrebbe dovuto corrispondere le sanzioni.

 

La Ctp respingeva il ricorso e la società ricorreva avverso la sentenza dinanzi alla Commissione tributaria di secondo grado. La Ctr respingeva l’appello della società, ritenendo che “i soggetti autori della frode risponderanno nei confronti della società, ma sul piano fiscale i costi restano indeducibili perché privi di controprestazione. Parimenti legittima appare l’irrogazione delle sanzioni essendo la stessa esclusa, ai sensi dell’art. 6, terzo comma, del DPR n. 472/1997, solo per fatti denunciati all’autorità giudiziaria ed addebitabili esclusivamente a terzi”.

 

La società, dopo avere premesso che la dichiarazione del maggiore imponibile doveva considerarsi conseguenza immediata e diretta delle condotte fraudolente “poste in essere da terzi e finalizzate alla sottrazione di danaro in danno di essa ricorrente”, che si era costituita parte lesa nel processo penale a carico dei dirigenti infedeli, ricorre dinnanzi alla Corte suprema con unico motivo.

 

Asserisce infatti che:

 

  • doveva considerarsi carente nella specie il carattere doloso o colposo dell’atteggiamento psicologico dell’autore dell’illecito

 

  • il giudice dell’appello avrebbe dovuto fare applicazione del comma 3 del menzionato articolo 6, che dichiara non punibile il contribuente quando sia dimostrato che il mancato pagamento del tributo “è addebitabile esclusivamente a terzi”.

 

La Corte di cassazione respinge il ricorso, nulla disponendo sulle spese. A giudizio della Corte suprema, pur dovendosi dare per assodato che la condotta omissiva o commissiva, per essere sanzionabile ai fini fiscali, deve sempre essere connotata da dolo o colpa, nel caso di specie appare non potersi prescindere dal rilievo del principio secondo il quale “gli enti caratterizzati da personalità giuridica agiscono sempre a mezzo dei loro organi che, per effetto del meccanismo della immedesimazione organica, sono istituzionalmente deputati ad esprimerne le volontà, sicché è a costoro che si guarda non solo ai fini del collegamento materiale della condotta con l’ente a cui essa si riferisce, ma anche ai fini dell’individuazione dell’elemento psicologico che connota la condotta medesima”.

 

Con specifico riferimento alla identificazione del concetto di “terzo”, ai fini dell’applicazione dell’articolo 6, comma terzo, la Cassazione ha avuto già modo di spiegare che “In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, l’esimente di cui all’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 472 del 1997, per cui il contribuente non è punibile quando dimostri che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi, non può essere riconosciuta alla società contribuente atteso che il rapporto di immedesimazione organica impedisce di considerare l’amministratore come “terzo” rispetto alla società amministrata”.

 

In conclusione, il Collegio di piazza Cavour conferma la posizione espressa nella sentenza 20113/2012, con la quale si era pronunciata per l’applicabilità delle sanzioni a carico della società e l’insussistenza della causa di non punibilità, in relazione al caso di un amministratore di società che aveva falsificato i modelli F24 e intascato i soldi che sarebbero dovuti finire nelle casse dell’Erario. La motivazione addotta dai giudici di legittimità si basava sul concetto di immedesimazione organica fra società e amministratore, nella quale il dolo dell’amministratore non può interrompere il rapporto organico né impedire la riferibilità dell’atto alla società.