Nella cessione di un ramo d’azienda, ai fini della determinazione della relativa imposta di registro, non si può prescindere dalla quota che non è versata cash, ma onorata – per accordo dei contraenti – attraverso l’accollo, da parte del cessionario, dei debiti in capo al cedente: ciò rappresenta una modalità di pagamento. È quanto emerge dalla sentenza della Corte di cassazione n. 24081 del 25 novembre 2015.
La vicenda processuale di merito
L’Agenzia delle Entrate ha proposto, con unico motivo, ricorso in Cassazione, nei confronti di due società, per la riforma della sentenza emessa dalla Commissione tributaria regionale, con la quale era stato annullato un avviso di accertamento emesso per il recupero dell’imposta suppletiva di registro applicabile su un contratto di cessione di ramo d’azienda intervenuto e stipulato tra le parti.
In particolare, i giudici di secondo grado, con la pronuncia impugnata dall’Amministrazione finanziaria, non avevano accolto la tesi dell’ufficio in base alla quale, ai fini di una corretta applicazione dell’imposta di registro nell’ipotesi di cessione di ramo d’azienda, la base imponibile avrebbe dovuto essere determinata al lordo dei debiti, a carico della società cedente, accollati dalla società cessionaria ritenendo, per converso, regolare dover determinare tale base imponibile con esclusivo riferimento all’importo versato dal cessionario al cedente ( “netto di cessione”).
Il ricorso per cassazione, come detto, si è fondato su un unico motivo, in applicazione dell’articolo 360, comma 1, n. 3), del codice di procedura civile, con il quale l’Agenzia delle Entrate ha denunciato la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 21, ultimo comma, 43 e 51, primo, secondo e quarto comma, del Dpr 131/1986.
Nello specifico, sulla base di quanto dedotto dalla difesa erariale, nel caso di cessione di ramo d’azienda o, allargando la prospettiva, nell’ipotesi di compravendita, qualora sia intercorso, tra le parti interessate, un accordo per il quale si sia convenuto che una parte della corresponsione del prezzo avvenisse tramite accollo, da parte del soggetto acquirente, dei debiti originariamente in capo al soggetto alienante, detto accollo rappresenta una modalità di adempimento dell’obbligazione dell’acquirente stesso di procedere al versamento del costo dell’operazione. Di conseguenza, sempre secondo l’ufficio, detto prezzo concorre a determinare, ai sensi degli articoli 21, 43 e 51 del Dpr 131/1986, che si assumono violati, la relativa base imponibile soggetta all’imposta di registro sull’atto di alienazione.
Le società ingiunte si sono costituite con autonomo controricorso, opponendo l’assoluta inammissibilità e infondatezza del ricorso proposto dall’ufficio.
Infatti, esse sostengono che le eccezioni dell’Agenzia delle Entrate, così come formulate, distorcerebbero la ratio decidendi della sentenza di Ctr impugnata, la quale, a loro giudizio, non racchiuderebbe conclusioni contrastanti con le disposizioni di cui l’ufficio denuncia l’inosservanza ma, correttamente, si baserebbe sull’accertamento di fatto del corrispettivo convenuto tra le parti contraenti.
La decisione
La Cassazione ha emesso, a conclusione dell’iter processuale, l’ordinanza 24081 del 25 novembre 2015, con la quale ha dichiarato ammissibile, in quanto fondato, il motivo di ricorso dell’Amministrazione. In via preliminare, i giudici di legittimità rigettano l’eccezione delle società resistenti in base alla quale la doglianza dell’Agenzia non sarebbe inerente al contenuto della sentenza impugnata, in quanto non si riferirebbe al contenuto normativo degli articoli 43 e 51 del Dpr 131/1986, ma si limiterebbe a una mera critica circa l’accertamento di fatto, effettuato dal giudice del merito, sui contenuti del contratto di registrazione e, più nello specifico, sugli accordi finalizzati alla definizione del prezzo di cessione.
La Cassazione, sul punto, osserva che è la stessa sentenza impugnata ad accertare che, nel contratto registrato, il relativo corrispettivo “…viene indicato in € 407.200 al lordo degli accolli di debiti…”.
Tuttavia, dal rilievo che “…il prezzo viene indicato successivamente con l’espressione [netto di cessione] nella misura di € 107.300…”, la Ctr della Basilicata desume il principio che “…quest’ultimo importo meglio si presta a integrare la base imponibile ai fini dell’imposta di registro…”.
I giudici di legittimità, all’esito della disamina della pronuncia gravata, censurano l’assunto della Ctr, fondato, prioritariamente, sulla circostanza che il corrispettivo di un’alienazione non “…potrebbe esser indicato al lordo e al netto…” e lo considerano, pertanto, inesatto, da un punto di vista giuridico.
Infatti, la Cassazione, con l’ordinanza de qua, richiama il proprio costante e consolidato orientamento, venutosi a formare in materia di imposta di registro, secondo il quale, per la determinazione della base imponibile, non può essere riconosciuta valenza alcuna alle modalità con cui i contraenti convengono la determinazione del prezzo e il suo soddisfacimento, anche nel caso in cui dette regole si definiscano in un mero accollo di debiti aziendali da parte del soggetto cessionario (cfr Cassazione,12215/2008).
Inoltre, gli stessi giudici puntualizzano che, ai fini del calcolo del valore di un atto di acquisizione di un complesso aziendale, basato sul parametro del valore dichiarato dalle parti (che l’articolo 51, comma primo, del Dpr 131/1986, pone quale base normale per la successiva tassazione), non devono essere sottratte dal corrispettivo convenuto le passività ipoteticamente alienate con il cespite principale.
Quest’ ultima operazione, infatti, è espressamente disciplinata dall’articolo 51, comma quarto, del citato Dpr, solo nella particolare ipotesi in cui l’Amministrazione non riconosca detto valore e proceda, per converso, a una libera stima. E, solo in questo caso, si potrà procedere a decurtare, da quanto accertato dall’ufficio quale prezzo di mercato del bene, i debiti eventuali (cfr Cassazione, 22223/2011, con la quale veniva, parimenti, cassata una decisione del giudice di merito, che aveva proceduto alla determinazione della base imponibile, ai fini del registro, detraendo, dal prezzo stabilito dalle parti, il credito accollato dall’acquirente e portato, poi, in diminuzione allo scopo di determinare la cifra da versare in contanti).
Considerazioni conclusive
In buona sostanza, il principio di diritto, enunciato e confermato dalla Cassazione, si basa sulla doppia applicazione, in caso di cessione di ramo d’azienda e conseguente calcolo dell’imposta di registro da applicare, dell’articolo 51, del Dpr 131/1986 in base al quale, ai fini della determinazione della base imponibile, i debiti aziendali – non estranei al ramo di azienda ceduto e accollati dal soggetto acquirente – vanno dedotti dal valore delle attività accertate dall’ufficio, ai sensi del quarto comma, ma non dal valore dichiarato, sul quale sia stata liquidata la relativa imposta, ai sensi del primo comma.