commercioSabato prossimo, 7 novembre, i dipendenti della grande distribuzione, delle cooperative, dei negozi aderenti a Confesercenti sciopereranno per il rinnovo del contratto. O meglio per chiedere ai loro datori di lavoro di applicare norme che già ci sono, che sono state firmate da tutte le sigle sindacali – Cgil compresa – e sono in vigore per 3 milioni di persone.

 

È il contratto siglato con la Confcommercio lo scorso marzo: più flessibilità, tetti sui contratti a tempo determinato (non più del 25 per cento) e a regime, fra tre anni, un aumento lordo mensile di 85 euro. Norme che vanno bene per i ‘piccoli’ di Confcommercio, ma non per i ‘grandi’. Fino a pochi anni fa la distinzione non esisteva: il settore applicava il contratto apripista firmato da Confcommercio, l’associazione più rappresentativa.

 

Poi, nel 2011, Federdistribuzione – che da Auchan a Carrefour raccoglie molti grandi nomi della Gdo -è uscita da Confcommercio adducendo le diverse necessità legate alle dimensioni maggiori. Idem per le cooperative e per Confesercenti, che associa in primis i negozi più piccoli. Di fatto Confcommercio, un tempo considerata l’ala più conservativa del settore, ha firmato un accordo condiviso che i grandi – o buona parte dei grandi – non vogliono. 85 euro sono troppi in tempi di inflazione bassa, dicono.

 

O meglio: si possono anche accettare, ma a patto di una maggiore “flessibilità, produttività, sostenibilità”, anche dei livelli occupazionali. Confusione e frammentazione dominano: non tutta la Gdo sta infatti con Federdistribuzione. Una parte dei supermercati, Conad per esempio, applica il contratto Confcommercio, così come molte mega catene dell’elettronica ( da Mediaworld a Trony ). Non solo: un contratto Federdistribuzione ancora non c’è: si applica il vecchio contratto Confcommercio. Ora scaduto. Sul caso ci sono già esposti in corso da parte di lavoratori che chiedono di aderire alla ‘nuova’ versione. E un contratto nazionale, intanto, si frantuma in mille pezzi.