Dall’Hole in the Wall all’ultimo esperimento di “School in the cloud” lo studioso indiano capovolge i consueti schemi di apprendimento. L’abbiamo intervistato a Budapest.
Intervistare Sugata Mitra non è facile. Spesso le risposte alle domande arrivano in tono scherzoso, e non è facile capire se si tratta di un modo brillante per far emergere una verità nascosta, o al contrario, una maniera altrettanto ingegnosa di eludere la questione. Personaggio controverso, Mitra.
Dalla vittoria alla conferenza TED del 2013, quando si è portato a casa un milione di dollari per sviluppare le proprie idee innovative sull’istruzione, molti lo considerano un genio, e altrettanti un ciarlatano. Il motivo è presto detto: l’approccio dello studioso indiano prevede una fortissima limitazione del ruolo degli insegnanti, a favore di forme auto-apprendimento guidato. Il che ovviamente, lascia perplessi non solo i docenti, ma anche i genitori degli alunni.
Sarebbe però sbagliato, e molto limitativo liquidare sbrigativamente il personaggio e le sue idee. Non solo perché Mitra, al momento in forza all’Università di Newcastle, è tutt’altro che uno sprovveduto: il suo curriculum è variegato e di tutto rispetto e spazia dallo studio dell’orbita delle molecole a quello dell’Alzheimer. Anche le sue sperimentazioni per un’istruzione fai-da-te hanno dato risultati in parte incoraggianti.
Una delle più famose, riguarda il progetto Hole-in-the-Wall (sì, è bravo anche a scegliere nomi suggestivi), che ha ispirato in parte il film Slumdog Millionaire. Consiste in delle stazioni di auto-apprendimento – in pratica dei computer il cui schermo è incassato nel muro e la cui tastiera è a disposizione dei ragazzi per fare ricerche, scrivere testi o navigare su Internet – disseminate in numerosi villaggi indiani, della Cambogia, e in alcuni paesi africani, Questi “chioschi” sono fatti di materiale ultraresistente, a prova di vandali e di condizioni atmosferiche avverse. La stessa incassatura nel muro fornisce un primo livello di protezione.
Avere la possibilità di auto-gestirsi, sembra incidere positivamente sul grado di apprendimento dei più giovani che, liberi o quasi da costrizioni (un adulto fissa comunque delle linee guida e dei “compiti” da eseguire) sembrano progredire maggiormente. Da qui all’idea dei Self Organizing Learning Environments (SOLEs), il passo è breve. L’assunto di fondo, banalizzando un po’, è che esista una sorta di “intelligenza collettiva”, che è difficile da misurare e percepire, ma si manifesta nel modo in cui dei gruppi riescono a organizzarsi, con poco o nessun aiuto esterno, per raggiungere un obiettivo prefissato. Un po’ come avviene per la api e le formiche.
Prova a spiegarlo, all’inizio del suo intervento a Budapest, con un esempio concreto. Invita il pubblico a battere le mani all’uniscono. Dopo qualche esitazione, la gente si accoda, entra in sintonia e comincia a battere sempre più forte, sempre più convinta. Non è esattamente una dimostrazione “scientifica”, ma è di sicuro suggestiva. Applicare il concetto dei SOLEs all’insegnamento, vuol dire lasciare più o meno liberi i ragazzi di studiare, ma con la supervisione esterna di una “granny”, una “nonnina”, digitale che interviene via Skype.
Ma cosa vorrebbe esattamente Mitra: sbarazzarsi o quasi, di tutti gli insegnanti, oppure mescolare il vecchio sistema di apprendimento con un approccio più moderno? “Sarebbe bello riuscire a mescolare i due sistemi – mi dice – ci sono dei docenti che stanno cercando di farlo, al momento non è molto chiaro se sia possibile, . Il vero problema, che blocca tutto, è quello degli esami, che sono l’opposto di SOLEs”. Probabilmente perché l’esame prevede che l’alunno abbia seguito un percorso strutturato, come avviene finora, e non anarchico come piacerebbe al ricercatore.
Un altro punto critico, e per alcuni dolente, è come far sì che le persone che devono supervisionare i ragazzi, le “granny” abbiano le qualità pedagogiche necessarie. Chi li seleziona? Su quali basi? Anche qui, secondo Mitra, la soluzione parrebbe essere nell’auto-organizzazione. “Il problema si sta praticamente risolvendo da solo – afferma – era una cosa che mi preoccupava, ma ho visto che i primi “supervisori”, si sono autogestiti e hanno messo in piedi una procedura per selezionare i nuovi entrati. Una volta fatta la domanda, questi ultimi devono mandare un video di presentazione, poi c’è un colloquio e poi una prima sessione di supervisione di prova, in cui la granny viene a sua volta monitorata per vedre come si comporta, dopo di che, se è in grado, può iniziare a lavorare da solo”.
Un dubbio ricorrente: se non c’è un insegnante, chi si assicura che nessuno resti indietro? Che non soltanto i più intelligenti spicchino?
“Conosco quest’obiezione – risponde lui – e ha una doppia risposta, la prima, è che non è una domanda molto buona…perché anche quando insegni a una classe di 25 persone nel modo tradizionale, non è che tutti vanno allo stesso livello; la seconda è che in una classe normale, chi va male in una materia, spesso va male in tutte, perché l’insegnante lo valuta per i suoi punti deboli, lo classifica. Nel SOLE non c’è niente di tutto questo”.
Al momento Mitra ha attivato sette laboratori di “School in the cloud” o ambienti di auto-apprendimento, in India e UK. La principale difficoltà, dice, è l’ostilità dei genitori, che non capiscono l’utilità del progetto. “Specie nelel comunità più povere – racconta – dicono: come è possibile che funzioni, ci vuole un insegnante che coordini tutto”. Un altro problema è che chi parla bene inglese è naturalmente avantaggiato rispetto agli altri.
Ancora fra il serio e il faceto, aggiunge però che il vero problema, a suo dire, è più di natura tecnologica. “Pensavo che fosse più di natura educativa- dice – invece la difficoltà più grossa è mantenere la connessione a Internet”. Pensando forse di fare una domanda intelligente, gli chiedo a mo di conclusione se la sua tecnica di auto-apprendimento abbia qualcosa a che fare con la “jugaad”, l’arte indiana di arrangiarsi e creare soluzioni innovative con poco a disposizione. Mi guarda che con qualcosa che assomiglia pericolosamente al compatimento.
Poi sorride: “non penso che c’entri – dice – ma forse una relazione con la cultura indiana c’è. Il mio nome, Sugata, è anche uno dei nomi del Buddha e significa, colui che ha trovato la giusta via”.