Martedì la Corte Costituzionale dirà se è da considerarsi incostituzionale il blocco del rinnovo della parte economica dei contratti nel pubblico impiego imposta dal 2010 dal Governo Berlusconi e poi mantenuta intatta sino ad oggi. La posta in gioco è alta e per il Governo sarebbe un duro colpo dopo la vicenda delle pensioni “congelate” a fine 2011 dal governo Monti.
Nei giorni scorsi l’Avvocatura dello Stato ha fatto i conti di quanto costerebbe una bocciatura della norma con effetti retroattivi: ben 35 miliardi di euro a cui abbinare un effetto strutturale di 13 miliardi l’anno dal 2016. Cifre insostenibili per i fragili bilanci del Tesoro che rischierebbero di sforare i patti di stabilità europei in modo ben piu’ grave di quanto causato dalla sentenza sulle pensioni.
L’ipotesi prevalente è che la Consulta dichiari inammissibili i ricorsi ma inviti il Parlamento a rimuovere il blocco dei contratti perché la misura è costituzionalmente legittima solo se ha carattere temporaneo. Non può essere prolungata in modo quasi automatico.
Una sentenza di questo tipo consentirebbe al Tesoro di tirare un sospiro di sollievo ma obbligherebbe il governo a riaprire la partita dei contratti, che poi è l’obiettivo vero di Cgil, Cisl e Uil con la prossima legge di stabilità.
La Consulta, infatti, è chiamata anche a valutare i «rilevanti effetti finanziari» che un’abrogazione tout court della norma produrrebbe, alla luce del nuovo articolo 81 della Costituzione, che prevede l’equilibrio di bilancio. Anche in questa ipotesi, la piu’ favorevole, il Governo dovrebbe recuperare circa 8 miliardi a regime per gli aumenti, cifre ancora non stanziate nel Def.