gazzetta, bilateraleIn materia di società non operative, il rimborso Iva è subordinato alla dimostrazione, a opera della parte contribuente, di situazioni oggettive che hanno impedito il conseguimento del reddito minimo. Non spetta, pertanto, all’ufficio finanziario la prova dell’esistenza dell’intento elusivo.

 

È quanto affermato dalla Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 7534 del 14 aprile 2015.

 

La vicenda processuale

 

La controversia nasce dall’impugnazione di un diniego al rimborso di un credito Iva, maturato dalla società ricorrente in dipendenza dell’acquisto di beni strumentali.

 

Detto diniego veniva motivato con la mancanza dei presupposti previsti dalle leggi 662/1996 e 724/1994 per l’applicazione della disciplina relativa alle società non operative.

 

Il ricorso veniva accolto dalla Ctp. In sede d’appello, la Commissione tributaria regionale confermava la decisione di primo grado, evidenziando che “la società … ha evidentemente dimostrato di avere acquistato un suolo edificatorio, di avere effettuato lavori di costruzione di un immobile per lo svolgimento dell’attività di albergo, di avere ottenuto per la realizzazione dello stesso un finanziamento pubblico e di non aver potuto iniziare l’attività di cui sopra per via di una serie di situazioni oggettive. D’altronde l’Ufficio non era riuscito a dimostrare l’intento elusivo da parte della società, sicché non la si poteva considerare come di comodo … prendendo solo in considerazione il fatto che la stessa non abbia operato”.

 

L’ufficio finanziario propone ricorso per cassazione, lamentando innanzitutto l’erroneità dell’operato della Ctr laddove questa ritiene provata l’esistenza di circostanze oggettive idonee a giustificare il mancato conseguimento dei ricavi o del reddito minimo, ai sensi dell’articolo 30 della legge 724/1994, ossia dell’unico presupposto utile a consentire la disapplicazione della menzionata disciplina antielusiva mediante presentazione di un’apposita istanza di interpello.

 

La Commissione tributaria regionale, altresì, ad avviso dell’Agenzia, ha pure erroneamente gravato l’ufficio dell’onere di dimostrare l’esistenza di un intento elusivo, mentre la norma citata già direttamente riconnette l’effetto della non rimborsabilità dell’imposta alla sussistenza dei presupposti ivi indicati, onerando invece la parte contribuente della dimostrazione di quelle situazioni oggettive che hanno impedito l’effettuazione delle operazioni rilevanti ai fini Iva.

 

La pronuncia della Cassazione

 

Nell’accogliere il ricorso interposto dalla difesa erariale, i giudici di legittimità hanno rilevato neldecisum di merito “l’erronea applicazione di un onere di prova invertito (la dimostrazione ‘dell’intento elusivo’, che incomberebbe sull’Agenzia), così violando la prescrizione del combinato disposto degli artt. 30 della legge 724/1994 e 37-bis del DPR n. 600/1973, nella parte in cui quest’ultimo prevede che le disposizioni antielusive possono essere disapplicate solo ‘qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi’, così palesemente onerando la parte contribuente di fornire una dimostrazione nitida delle ragioni di fondatezza dell’istanza di disapplicazione”.

 

Osservazioni

 

Per le società e gli enti non operativi, l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non è ammessa al rimborso né può costituire oggetto di compensazione, secondo quanto previsto dall’articolo 17 del Dlgs 241/1997, o di cessione, ai sensi dell’articolo 5, comma 4-ter, del Dl 70/1985.

 

Qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l’ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini Iva non inferiori all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali previste dall’articolo 30, comma 1, della legge 724/1994, l’eccedenza di credito non è ulteriormente riportabile a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi di imposta successivi.

 

La società interessata, invero, può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive (articolo 37-bis, comma 8, Dpr 600/1973), in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.

 

Da detto quadro normativo, per i giudici di Cassazione, emerge con evidenza che l’Agenzia non aveva onere alcuno di comprovare l’esistenza di un intento elusivo al fine di negare il rimborso richiesto dell’eccedenza di credito, considerato che la norma direttamente (e senza gravare l’amministrazione di onere alcuno) riconnette alla qualità di società non operativa il predetto effetto preclusivo. Analogamente, risulta evidente, in base a un’interpretazione letterale di predetta disposizione, che sarebbe spettata alla parte contribuente (che peraltro risulta avere presentato soltanto dopo l’esito del giudizio di primo grado una ulteriore istanza di disapplicazione della disciplina antielusiva, in relazione all’anno di imposta 2006, che qui è in considerazione, alla base della quale non è neppure chiaro quali fossero gli elementi prospettati) la dimostrazione delle oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei redditi, dimostrazione necessaria per la disapplicazione delle disposizioni antielusive, ed è su questo punto che – per quanto risulta dalla ricostruzione autosufficiente del fatto processuale reso dalla parte ricorrente – il giudicante era stato sollecitato a esprimersi in sede di gravame.

 

Dalla lettura del provvedimento impugnato” continuano i giudici “emerge agevolmente che il giudicante non ha in realtà reso alcuna motivazione (in rispetto alle questioni concretamente dedotte in controversia), essendosi limitato ad affermare – in termini puramente apodittici – l’avvenuta allegazione e dimostrazione delle necessarie “situazioni oggettive”, senza preoccuparsi di fornirne alcuna specificazione, così eludendo l’obbligo di indicazione dell’iter logico seguito per pervenire alla propria determinazione”.

 

La Corte suprema, di conseguenza, ha deciso la cassazione della sentenza impugnata con conseguente rinvio al giudice dell’appello, apparendo necessario rinnovare l’esame delle questioni proposte in secondo grado contro la pronuncia di primo grado, alla luce dei principi di diritto enunciati.