tagliSimulare la perdita di una caparra confirmatoria, con l’esclusivo scopo di abbattere il valore dell’azienda ceduta e ottenere, così, l’indebita riduzione dell’imposta di registro, integra un’ipotesi di abuso del diritto.
Ad affermarlo è la Corte di cassazione che, nella sentenza n. 6718 del 2 aprile 2015, ha ricostruito la complessa vicenda societaria e contrattuale che ha coinvolto tre aziende emiliane.

 

Il contenzioso trae origine dall’impugnazione dell’avviso di rettifica e liquidazione con il quale l’ufficio, in relazione a un contratto di cessione di azienda, ha rideterminato il valore del bene compravenduto, disconoscendo l’ammontare delle passività aziendali.
Tale importo era costituito dal doppio della caparra confirmatoria pattuita nell’ambito di un precedente contratto di affitto, avente a oggetto il medesimo compendio aziendale, a fronte del diritto di opzione per l’acquisto riconosciuto all’affittuaria, esercitabile non prima del decorso del quinto anno dalla stipula.

 

Con l’atto sottoposto a rettifica, la venditrice aveva, invece, ceduto l’azienda ad altra società, appostando tra le passività un importo pari al doppio della caparra ricevuta, ai sensi dell’articolo 1385 del codice civile.
L’ufficio motivava il recupero impositivo, evidenziando l’intento elusivo sotteso alla complessiva operazione negoziale. Infatti, facendo valere l’inadempimento del diritto di opzione concesso all’affittuaria, la venditrice aveva di fatto conseguito un indebito vantaggio fiscale, consistente nell’abbattimento del valore dell’azienda ceduta e, proporzionalmente, della correlata imposta di registro, tanto più in considerazione del successivo atto di cessione di quote della società acquirente in favore dell’originaria affittuaria.

 

La Ctp di Rimini si discostava dall’interpretazione fornita dall’ufficio in ordine alla connotazione elusiva della fattispecie, ritenendo che la passività gravante sull’azienda fosse pari all’ammontare della caparra confirmatoria pattuita per l’esercizio del diritto di opzione, anziché al doppio di detto importo, così come eccepito da parte ricorrente.
La sentenza di primo grado veniva appellata, in via principale, dai contribuenti e, in via incidentale, dall’Agenzia, che ribadiva come la successione cronologica dei tre atti (affitto d’azienda – cessione d’azienda – cessione di quote) rendesse manifesto l’intento di trasferire l’azienda gravandola di una passività fittizia, dato che al momento del perfezionamento della compravendita non poteva configurarsi alcun debito per violazione degli obblighi contrattuali inerenti il diritto di opzione, non avendo l’affittuaria ancora agito a tutela dei propri diritti.
La Ctr di Bologna accoglieva parzialmente l’appello principale e rigettava quello incidentale ritenendo, in particolare, insussistente la dedotta ipotesi di elusione fiscale “per essere gli atti determinati da ricerca di liquidità e voluti dalla banca finanziatrice”.

 

L’ufficio ricorreva, quindi, per la cassazione di detta pronuncia, deducendo la violazione degli articoli 20 del Dpr 131/1986, 1362 del codice civile e 53 della Costituzione, nonché, in via gradata, il vizio di omessa o insufficiente motivazione.

 

Più precisamente, l’Agenzia lamentava come, nel computare tra le passività aziendali l’importo della caparra, la Ctr fosse incorsa nella violazione delle richiamate disposizioni, non avendo riconosciuto il caso dell’elusione fiscale e non avendo fatto corretta applicazione del principio generale del divieto di abuso del diritto.

 

La Ctr, inoltre, aveva – ad avviso dell’ufficio – omesso di indicare gli elementi dai quali aveva dedotto le ragioni per affermare che i negozi, piuttosto che stipulati per conseguire un indebito deprezzamento del valore dei beni compravenduti, erano stati pretesi dall’istituto di credito per fornire le risorse economiche necessarie a fronteggiare le istanze di fallimento.

 

Le contribuenti resistevano con controricorso e proponevano contestuale ricorso incidentale.

 

I giudici di legittimità hanno accolto le doglianze dell’Agenzia, muovendo preliminarmente da una ricognizione della giurisprudenza comunitaria e nazionale in tema di abuso del diritto e precisando, al riguardo, come il relativo divieto “preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici” (cfr Cassazione 30055/2008).

 

Tale principio generale, da ritenersi applicabile a tutti i tributi, in quanto immanente all’ordinamento costituzionale italiano, comporta che i negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria, su cui grava l’onere di provare sia il disegno elusivo sia le modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale. Per converso, il divieto di siffatte condotte non opera “qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio d’imposta” (cfr da ultimo Cassazione 4603/2014).

 

La Corte suprema richiama l’orientamento giurisprudenziale (cfr Cassazione 3481/2014) secondo cui l’articolo 20 del Dpr 131/1986 (“L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”) “…non integra un’ipotesi tipicizzata di elusione fiscale, ma costituisce piuttosto una disposizione che, nel privilegiare la sostanza sulla forma, è direttamente intesa ad assoggettare ad imposta la manifestazione di capacità contributiva correlabile alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più di essi”.

 

Proprio alla luce della lettura dell’articolo 20 del Dpr 131/86, la Corte ritiene corretto inquadrare la fattispecie in esame nell’alveo del divieto di abuso del diritto: “non si tratta, infatti, di accordare o meno la prevalenza alla natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo e sulla loro forma apparente (non contestandosi nell’atto impositivo trattarsi della vendita di un’azienda), quanto di verificare la computabilità nel passivo aziendale ceduto di un importo (quello della caparra) che si assume essere stato artificiosamente appostato (in ragione di un atto pregresso della venditrice) allo scopo di abbattere il valore dell’azienda ceduta”.

 

Così, inquadrata giuridicamente la concreta fattispecie in rilievo, la Corte reputa sussistente il vizio motivazionale lamentato dall’ufficio: invero, la pronuncia impugnata “ha escluso il verificarsi di un’ipotesi elusiva, rilevando che la vendita dell’azienda era stata eterodiretta dall’Istituto bancario per consentire l’erogazione del credito richiesto, senza indicare gli elementi processuali dai quali aveva desunto la circostanza, né chiarire chi (compratrice o venditrice) avesse necessità di far ricorso al credito (…) e comunque senza valutare se gli strumenti giuridici adottati costituissero espressione di anomalia od irragionevolezza rispetto alle ordinarie logiche d’impresa…”.

 

Una simile precisazione sarebbe stata, a giudizio della Corte, tanto più necessaria in considerazione – da un lato – delle puntuali allegazioni dell’ufficio e – dall’altro – della obiettiva opacità delle ragioni economiche sottostanti la complessa vicenda negoziale attuata dalle contribuenti.