fatture, aumentoIn presenza di operazioni oggettivamente inesistenti, l’imprenditore non ha diritto a detrarre l’Iva sulla base del solo fatto di aver corrisposto l’ammontare dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza dell’operazione all’impresa, specie se l’assolvimento – dell’imposta stessa – rientra in un complessivo programma di evasione fiscale, che ha consentito alla società di conseguire un abbattimento del reddito imponibile mediante l’aumento dei costi per acquisti, solo in apparenza correlati all’attività di impresa.

 

A chiarirlo, è la Corte di cassazione con sentenza n. 6195 del 27 marzo 2015.

 

Il fatto
La vicenda riguarda una società, a cui l’ufficio di Verona aveva contestato l’indebita deduzione di costi per operazioni oggettivamente inesistenti.
In particolare, il meccanismo accertato dai verbalizzanti prevedeva che, da una parte, la società acquistasse beni strumentali a prezzi molto elevati da altre società del gruppo e, dall’altra, che gli stessi amministratori acquistassero – con operazioni, almeno in apparenza indipendenti da tali forniture – quote di partecipazione nelle stesse società fornitrici, assumendo l’obbligo di rivenderle, a breve distanza di tempo, oltretutto a prezzi notevolmente superiori a quelli di acquisto.

 

Così operando, la società accertata poteva dedurre costi inesistenti. Gli amministratori, invece, con il meccanismo delle plusvalenze, costituenti – nella sostanza – utili societari, potevano beneficiare di una tassazione più favorevole rispetto ai dividendi societari ufficialmente distribuiti.

 

L’avviso di accertamento veniva impugnato dinanzi alla Ctp di Verona, che accoglieva le doglianze mosse dalla ricorrente.
Il verdetto di prime cure veniva, poi, confermato dal giudice dell’appello che, pure in presenza di operazioni inesistenti inserite nel meccanismo di elusione dell’imposizione diretta, ammetteva il diritto alla detrazione dell’Iva pagata sulle fatture in contestazione.

 

Da qui, la prosecuzione del giudizio in Cassazione su ricorso dell’ufficio, che denunciava la violazione degli articoli 17, 18, 19 e 21, comma 7, del Dpr 633/1972.

 

La decisione

Investita della questione, in forza del ricorso presentato dall’Amministrazione finanziaria, la Corte suprema ha ravvisato giusti motivi per annullare il verdetto del giudice di merito.
A giudizio della Corte, l’accertata sussistenza, in fatto, di fatture emesse per operazioni oggettivamente inesistenti avrebbe dovuto indurre la Ctr a diversa conclusione quanto alla detraibilità dell’Iva assolta in relazione alle operazioni documentate dalle suddette fatture.

 

In caso di operazioni oggettivamente inesistenti, infatti, il diritto alla detrazione dell’Iva non può essere ammesso, sulla base del solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza dell’operazione all’attività d’impresa.

 

Questo requisito è certamente mancante, in relazione al pagamento dell’Iva corrisposta per operazioni inesistenti, “di per sé inidoneo a configurare un pagamento a titolo di rivalsa, trattandosi di costo non inerente all’attività istituzionale dell’impresa, in quanto potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il detto nesso di inerenza” (cfrCassazione 735/2010).

 

Nel caso di specie, scrivono i giudici di legittimità, “l’assolvimento dell’Iva si è concretizzato in un esborso rientrante nel complessivo programma di evasione di imposta, consentendo alla società di conseguire un abbattimento del reddito imponibile, facendo levitare i costi per acquisti, solo in apparenza correlati all’attività di impresa”.

 

Pertanto, osserva la Corte, è da escludere che l’assolvimento dell’Iva da parte della società, possa dare luogo a doppia imposizione, come sostenuto dalla Commissione di merito.

 

I soggetti coinvolti nell’operazione, si legge nella sentenza, “avevano posto in essere una forma di addebito in rivalsa del tutto apparente, nel quale l’esborso dell’Iva da parte dell’acquirente, men che costituire un effettivo pagamento di imposta, rappresentava un esborso rientrante nel complessivo meccanismo elusivo prefigurato dai contraenti”.

 

Il diritto alla detrazione non può essere riconosciuto, visto che il Fisco ha fornito prove inconfutabili sulla consapevole volontà della contribuente di inserirsi in un ampio progetto di evasione, vista anche l’assenza di prove di segno contrario.

Del resto, concludono i giudici, nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti, è escluso in radice che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettivamente ricevuta o meno.

 

Ulteriori osservazioni

Il principio, secondo il quale il diritto alla detrazione dell’Iva può essere negato in presenza di pratica abusiva, è stato confermato dalla Corte di giustizia Ue nella sentenza del 27 ottobre 2011, relativa alla causa C-504/10.
Secondo i giudici europei, la detrazione dell’Iva va negata se assolta in presenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale e autonoma ragione economica che giustifichi l’operazione commerciale esposta in fattura e oggetto di contestazione (in senso conforme, cfr Cassazione10352/2006 e 22135/2013).

 

Difatti, argomenta la giurisprudenza, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni Iva non può essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento. Trattasi, invero, di elementi indiziari, la cui presenza (o assenza) deve essere letta nel contesto di tutte le altre risultanze processuali (cfr Cassazione 15228/2001).

 

Ovviamente la prova, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe all’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino le operazioni poste in essere.

 

Altra questione affrontata nella decisone in rassegna, strettamente connessa a quella dell’effettività della prestazione, è la non inerenza del costo.

 

Il diritto alla detrazione dell’Iva può essere legittimamente esercitato qualora sia comprovata l’inerenza del bene acquistato all’esercizio dell’impresa, quando, cioè, emerga un quid pluris rispetto alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, dato dall’inerenza o strumentalità del bene comprato rispetto all’attività imprenditoriale (cfr Cassazione 16853/2013).

 

Non può essere ammessa la detrazione dell’Iva in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti per assenza di uno dei requisiti fondamentali previsti dall’articolo 19, comma 1, ossia l’acquisto di beni e servizi da parte dell’imprenditore che siano strettamente connessi all’attività d’impresa.
La mera esposizione in fattura dell’Iva non è di per sé sufficiente a legittimare l’esercizio del diritto alla detrazione, in quanto, tale diritto è correlato sempre ai seguenti presupposti: effettività e inerenza dell’acquisto.

 

Legittima, dunque, la scelta dei giudici che, nel negare la detrazione d’imposta, hanno fatto corretta applicazione dei principi in tema di abuso e di quelli più generali in tema di Iva, dove il principio di effettività della prestazione prevale sempre sul principio di cartolarità del tributo (cfr Cassazione 5979/2014).