Non può essere accettata la tesi di estraneità alla frode carosello quando i rapporti d’affari sono tenuti con aziende che si configurano chiaramente come semplici cartiere.
Nel caso di operazioni effettuate senza applicazione di imposta sulla base di dichiarazioni di intento ideologicamente false, il cedente è tenuto al versamento dell’Iva su tali operazioni, salvo che sia dimostrato di aver posto in essere tutte le cautele possibili al fine di escludere un’eventuale partecipazione alla frode. Il cessionario del ramo d’azienda è responsabile per il mancato pagamento dell’imposta ai sensi dell’articolo 14 del Dlgs 472/1997 (Cassazione, sentenza 4593 del 6 marzo).
Vicenda
L’ufficio notificava atti di accertamento ai fini Iva a carico di una Spa cedente e della controllata Srl (quest’ultima quale cessionaria del ramo d’azienda) relativamente a cessioni all’esportazione effettuate nei confronti di pretesi esportatori abituali.
Invero, dall’indagine condotta dalla Guardia di finanza era emerso che la società cedente operava in sospensione d’imposta sulla scorta di dichiarazioni d’intento non veritiere nei confronti di imprese che lavoravano nel settore del commercio degli autoveicoli in totale evasione fiscale. La frode fiscale, in sostanza, ruotava attorno agli stessi soggetti ai quali faceva capo la cedente (e la cessionaria) che vendeva autovetture in sospensione d’imposta agli apparenti esportatori abituali, che le rivendevano con addebito d’imposta agli autosaloni collegati, i quali successivamente le cedevano a clienti italiani.
Gli accertamenti venivano confermati dalle commissioni di merito. Le società proponevano ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, tutti rigettati dalla cassazione.
Motivi della decisione
Due sono le questioni principali affrontate dalla Corte suprema: la prima riguarda aspetti legati al contenuto degli avvisi di accertamento e ai motivi posti a sostegno della decisione impugnata; la seconda riguarda invece i termini in cui sussiste una responsabilità solidale, limitata o illimitata, della cessionaria per i debiti tributari della cedente anche nel caso di conferimento di ramo d’azienda.
Sul primo profilo, la Cassazione, richiamando altre recenti pronunce di legittimità, ha ribadito che l’Amministrazione finanziaria può ben provare che il contribuente fosse partecipe di frode o avesse elementi “tali da porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto” (Cassazione, 23560/2012 e 9108/2012), soprattutto nell’ipotesi di circolazione di beni tramite ditte sfornite di adeguata dotazione personale e strumentale (Cassazione, 6229/2013 e 23074/2012) e nell’ipotesi di circolazione abituale di beni con interposizione ripetuta delle medesime ditte del settore.
Dunque, ove l’Amministrazione fornisca attendibili riscontri indiziari circa l’assenza di buona fede del cedente, quest’ultimo resta esposto al recupero dell’Iva, salvo che dimostri di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità oppure di non aver potuto abbandonare lo stato d’ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni (da ultimo, Cassazione, 15044/2014).
Nel caso in esame, a giudizio della Corte, il coinvolgimento nelle frodi della cedente è stato correttamente valutato dal giudice d’appello, secondo quei criteri di normale diligenza che consentono “la sussunzione dei fatti accertati della portata precettiva delta norma settoriale di cui si assume la violazione o meglio la falsa applicazione mentre del tutto inconsistente la tesi delle ricorrenti circa la pretesa insussistenza dell’obbligo del cessionario”.
Il nodo centrale della sentenza d’appello è rappresentato dal riscontro che le imprese cessionarie commerciavano autoveicoli in totale evasione fiscale, senza avere i requisiti degli esportatori abituali, senza alcuna struttura e operando sostanzialmente come delle cartiere.
Nella specie era evidente l’inconsistenza aziendale delle ditte clienti, che si accreditavano come esportatrici abituali, a dover mettere sull’avviso la cedente Spa secondo quei criteri di elementare diligenza richiesti a qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto. Per la Corte, “il fatto che le imprese cessionarie, oltre a operare in ritenuta evasione fiscale totale e senza avere i requisiti degli esportatori abituali, commerciavano autoveicoli senza avere alcuna struttura, individua una situazione di obiettiva conoscibilità tale da far sì che la società fornitrice potesse agevolmente superare l’eventuale stato d’ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni intercorse”. Pertanto, alcuna censura va sollevata alla sentenza di secondo grado neppure in ordine al profilo motivazionale, atteso che secondo la Corte è oramai consolidato in giurisprudenza il principio che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso (Cassazione, 3601/2006).
Particolarmente interessante è la seconda questione affidata al sesto motivo di impugnazione.
Le ricorrenti denunciavano congiuntamente violazione e falsa applicazione dell’articolo 14 del Dlgs 472/1997 (commi 1-2-4) e difetto di motivazione laddove la sentenza d’appello ha ritenuto la responsabilità anche della cedente, mera conferitaria del ramo d’azienda.
Rilevano, sotto il profilo giuridico, che il citato articolo riguarderebbe solo le cessioni di azienda e non i conferimenti, dato che, con il conferimento, il soggetto conferente non si priverebbe dell’azienda, ma continuerebbe a detenerla quale socio della conferitaria. Le ricorrenti eccepiscono in fatto che la cessionaria era stata costituita in attuazione di un piano di riorganizzazione aziendale sollecitato dalla casa madre e mirante a lasciare alla cedente il ruolo di holding, il che era avvenuto prima della verifica fiscale e senza alcuna distrazione in danno dei creditori.
Tali eccezioni sono ritenute infondate dalla Cassazione.
Si osserva che in tema di responsabilità del cessionario nell’ipotesi di cessione di azienda, secondo l’articolo 14 del Dlgs 472/1997, questi è responsabile in solido, fatto salvo però il beneficio della preventiva escussione del cedente, pertanto il cessionario non risponde dei debiti contratti dal cedente, laddove dagli atti non appare alcuna traccia dell’avvenuta escussione.
La ratio della norma è di evitare che, attraverso le diverse forme negoziali di trasferimento dei beni costituenti il complesso aziendale, venga sottratta al fisco la originaria garanzia patrimoniale dei crediti tributari vantati nei confronti del cedente, corrispondentemente a quanto previsto, in caso di cessione di azienda, a tutela degli altri creditori dall’articolo 2560, comma 2, del codice civile.
Si tratta di una responsabilità sussidiaria e solidale limitata a un arco temporale triennale per le violazioni commesse dal cedente nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti ovvero per le violazioni irrogate e contestate nello stesso periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore. La medesima responsabilità opera, invece, senza che si applichino le limitazioni stabilite dai primi tre commi della norma, qualora si tratti di cessione in frode al fisco (comma 4); essa, infine, è presunta iuris tantum (comma 5) “quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione dì una violazione penalmente rilevante” (da ultimo, Cassazione, 5979/2014).
Ritornando alla sentenza in commento, la Cassazione, con piena condivisione delle motivazioni della decisione impugnata, ritiene che ricorrano tutti gli elementi previsti dalla norma. Invero, il giudice d’appello aveva accertato che, all’epoca, era stata già avviata la verifica fiscale nei confronti della ditta cliente e che aveva avuto conoscenza formale anche dell’indagine penale avviata dalla procura della Repubblica e, dunque, “l’assoluta e incontestabile coincidenza dei soggetti proprietari e dei legali rappresentanti delle due società di capitali pone all’evidenza la profonda conoscenza di ogni attività svolta dalla S.p.A. e delle indagini fiscali avviate su di essa”.
In ultima analisi, la Corte aderisce alla tesi secondo cui l’applicazione del citato articolo 14 non è riferita solo alla cessioni d’azienda ma debba ritenersi estesa a tutte le altre operazioni che, dal punto di vista giuridico e sostanziale, siano assimilabili alla cessione, affermando che è assolutamente pacifica in giurisprudenza la generale assimilazione giuridica tra cessione e conferimento (Cassazione, 1963/1990, in materia di lavoro).
Come evidenziato dalla Cassazione sulla questione, anche la dottrina è concorde nell’affermare che l’articolo 14 del decreto legislativo 472/1997 trova applicazione “per qualunque genere di trasferimento di azienda per atto tra vivi, e quindi pure per il conferimento, così come per la permuta, la datio in solutum e la donazione”. Detto principio è stato più volte espresso dalla giurisprudenza che, con riguardo all’articolo 2560 del codice civile, ha ripetutamente evidenziato come il conferimento equivale alla cessione (si veda Cassazione, 4351/1997).