indagineLe norme sulle attività esterne degli organi verificatori sono congegnate in modo tale da contemperare l’interesse del Fisco con le garanzie previste a favore dei contribuenti.

 

Per procedere, durante l’accesso, a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili, è sempre necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica (articolo 52, comma 3, del Dpr 633/1972, applicabile anche al comparto delle imposte dirette in virtù del richiamo contenuto nell’articolo 33 del Dpr 600/1973).
La stessa autorizzazione non serve, invece, quando l’indagine si svolge con la collaborazione del contribuente (ovvero senza la manifestazione di una sua contraria volontà), da far constatare nel processo verbale.
È questo il principio che si desume dalla sentenza n. 3204 del 18 febbraio 2015, che riprende le conclusioni di una precedente pronuncia, la 9565/2007.

 

L’iter processuale
La vicenda riguarda l’impugnazione, da parte del titolare di una ditta individuale, di un avviso d’accertamento emesso in seguito a un processo verbale della Guardia di finanza, con il quale l’Amministrazione finanziaria recuperava, tra l’altro, una maggiore Irpef e una maggiore Iva in relazione al corrispettivo versato da un Comune per un appalto relativo al trasporto di rifiuti solidi urbani.
La documentazione che attestava il pagamento era stata reperita dalla Guardia di finanza nella cassaforte del contribuente.
Sia la Ctp sia la Ctr rigettavano le doglianze del contribuente relative a presunte violazioni commesse in sede di verifica.

 

Con successivo ricorso in Cassazione, sulla specifica questione, veniva denunciata la violazione e falsa applicazione dell’articolo 52, comma 3, del Dpr 633/1972, nonché l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione rispettivamente al n. 3 e al n. 5 dell’articolo 360, comma 1, codice di procedura civile.

 

La Cassazione ha ritenuto inammissibile, oltre che infondata, la specifica doglianza: inammissibile per la mancanza del quesito di diritto applicabile, in virtù dell’articolo 366-bis, cpc, ratione temporis; infondato, in quanto “l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ecc., prescritta in materia di IVA dall’art. 52, co. 3, del D.p.r. n. 633 del 1972 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 33 del D.p.r. n. 600 del 1973), è richiesta soltanto nel caso di “apertura coattiva” – come testualmente prescrive la norma succitata – e non anche quando l’attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente (Cass. 9565/2007)”.

 

Nel caso concreto, lo stesso ricorrente aveva affermato di aver prestato la propria assistenza per l’apertura della cassaforte, senza aver fatto constatare il proprio dissenso al momento di chiusura della verifica, essendosi solamente riservato di formulare eventuali controdeduzioni nelle sedi competenti.
Nel merito, il contribuente eccepiva la violazione dell’articolo 109 del Tuir e degli articoli 3, 6, e 21 del Dpr 633/1972.

 

Per quanto concerne il settore delle imposte dirette, la Ctr avrebbe errato nel ritenere corretta l’imputazione dei ricavi all’anno 1997, invece che al 1987, anno in cui il servizio era stato ultimato, definito e accettato (anche nei termini economici) dalla stazione appaltante.

 

In merito all’Iva, la Ctr non avrebbe considerato che, nonostante il contenzioso in atto con la stazione appaltante, la prestazione era stata ultimata nel 1987, per cui la relativa fattura (momento rilevante per l’effettuazione dell’operazione ai sensi dell’articolo 6 del Dpr 633/1972) non poteva che essere stata emessa prima del 1997.
Anche questa censura è stata ritenuta infondata.

 

Quanto alle imposte dirette, la Corte ricorda che, in tema di appalto, i ricavi rilevano solo al momento dell’ultimazione dei lavori, quando sia intervenuta l’accettazione del committente, derivante dalla positiva esecuzione del collaudo o da manifestazioni incompatibili con la volontà di non accettare (accettazione tacita): nel caso in esame, era evidente come una tale volontà non si era manifestata, vista la necessità, per il contribuente, di adire la via giurisdizionale per ottenere (a seguito di sentenza passata in giudicato nel 1997) il pagamento del corrispettivo.
In relazione all’Iva, le prestazioni di servizi si considerano effettuate soltanto al momento del pagamento del corrispettivo o, se anteriore, al momento dell’emissione della fattura.
Nella fattispecie in questione, la prestazione era stata sì ultimata nel 1987, ma il pagamento era avvenuto soltanto dieci anni dopo, in esito al contenzioso civile, né tantomeno il contribuente aveva dimostrato di aver nel frattempo fatturato i relativi importi.

 

Ulteriori osservazioni
L’articolo 52 del Dpr 633/1972 disciplina le attività degli organi verificatori, presso i locali dei contribuenti, effettuate per reperire documenti e altri mezzi di prova utili all’accertamento dell’imposta evasa. La disposizione è congegnata in modo da contemperare, anche in ossequio al principio di rango costituzionale di inviolabilità del domicilio (articolo 14 della Costituzione), l’interesse del Fisco alla repressione dei fenomeni evasivi con le garanzie previste a favore dei contribuenti. In particolare:

– per l’accesso effettuato in locali adibiti esclusivamente all’esercizio dell’attività commerciale o professionale, è sufficiente l’autorizzazione del capo dell’ufficio, da cui dipendono i verificatori, che ne indichi lo scopo

 

– per accedere ai locali a uso “promiscuo”, è necessaria anche l’autorizzazione del procuratore della Repubblica

 

– per l’accesso in locali diversi (ovvero destinati esclusivamente ad abitazione), l’autorizzazione del Pm può essere richiesta e rilasciata soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme fiscali (cfr Cassazione, sentenza 9611/2008).

 

Negli ultimi due casi, quindi, la necessità dell’autorizzazione del Pm rappresenta la garanzia, per il contribuente, del rispetto dell’inviolabilità del domicilio; se, però, nella seconda ipotesi l’autorizzazione è un mero adempimento procedimentale (pur sempre previsto a pena di nullità delle acquisizioni probatorie e del conseguente atto impositivo), per l’opportunità che l’accesso trovi pur sempre l’avallo dell’autorità giudiziaria, la sussistenza di gravi indizi di violazione della norma tributaria rappresenta un quid pluris rispetto all’autorizzazione, che diventa provvedimento valutativo (sindacabile da parte del giudice tributario: cfr Cassazione, 6836/2009 e 8062/1990) della ricorrenza, nella fattispecie specifica, dei presupposti giustificativi dell’ingresso nell’abitazione del contribuente.

 

Anche per l’apertura di cassetti e borse e quant’altro risulti protetto da chiusure, è necessaria l’autorizzazione del magistrato, in quanto tali beni sono attratti nella categoria concettuale del domicilio. L’eventuale assenso del contribuente – che fa venir meno la richiesta di autorizzazione al Pm – legittima l’operato dei verificatori. Il consenso, poi, dovrà essere trascritto sia nel processo verbale di accesso o giornaliero sia nel pvc.

 

Sul punto, è emblematica la sentenza della Cassazione 9565/2007, secondo cui occorre l’autorizzazione del procuratore della Repubblica solo per procedere ad “apertura coattiva” di borse, non essendo, invece, necessaria l’autorizzazione ove l’acquisizione di documenti contenuti in borse sia avvenuta con la collaborazione e in continua presenza del figlio e della moglie del contribuente e, comunque, senza la manifestazione di alcuna contraria volontà.

 

Si segnala, infine, un orientamento giurisprudenziale in base al quale, nel caso di accesso domiciliare già autorizzato dall’Autorità giudiziaria, non è necessaria una ulteriore autorizzazione specifica all’apertura di cassetti e borse, per la forza attrattiva della prima autorizzazione. Una volta valutata la sussistenza degli indizi di cui all’articolo 52 del Dpr 633/1972, l’autorizzazione si estende all’intero domicilio (e quindi anche a cassetti, borse, plichi, eccetera, in virtù della forza attrattiva di cui sopra).

 

Sul punto, la Corte di cassazione, con sentenza 14056/2006, in maniera netta e chiara, ha operato una distinzione: “l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica per l’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e simili, prevista dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, richiamato dall’art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973, è richiesta solamente nel caso di accesso disposto dagli uffici […] nei locali dell’impresa, ma non anche nel caso di perquisizione domiciliare già autorizzata dall’Autorità giudiziaria, essendo evidente che l’autorizzazione alla perquisizione domiciliare è comprensiva di ogni attività strumentale necessaria per l’acquisizione delle prove (Cass. n. 20824/2005)”.