Il Consiglio di Stato, bilanciando le esigenze di tutela della riservatezza dell’autore della comunicazione e la garanzia del diritto alla difesa degli interessi giuridici dell’istante, si è pronunciato sancendo il diritto di accesso anche alle mail inviate da/a indirizzi privati. Una sentenza qui analizzata dal D&L Department dello Studio legale Lisi.
Farà sicuramente molto discutere la recentissima pronuncia in cui il Consiglio di Stato ha sancito il diritto di accesso – ai sensi della Legge 241/1990 – anche alle comunicazioni email inviate da un indirizzo di posta privato, qualora queste abbiano rilevanza pubblica.
In particolare, la vicenda ha origine dal diniego opposto alla richiesta di accesso agli atti presentata da una dipendente dell’Istituto nazionale di astrofisica alla quale non era stato rinnovato l’incarico di responsabile amministrativo dell’Osservatorio di Catania: tale decisione era stata adottata alla luce delle pervenute lamentele dei ricercatori per difficoltà di gestione amministrativa delle missioni. Nello specifico, a tali problematiche veniva fatto riferimento in un verbale del consiglio di amministrazione dell’ente che verteva sulle segnalazioni giunte al Direttore Generale in merito alle conflittualità emerse tra l’interessata e i ricercatori dell’Osservatorio. In seguito a tale decisione di mancato rinnovo dell’incarico, l’interessata aveva inoltrato all’amministrazione d’appartenenza un’istanza di accesso integrale agli atti a tutela della propria immagine professionale, e in particolare a un allegato del verbale del consiglio di amministrazione contenente parte del testo di un’e-mail inviata all’indirizzo di posta privato del presidente dell’Istituto, comprensivo del nominativo del mittente (anch’egli dipendente dell’Osservatorio). Tale accesso, tuttavia, le era stato negato.
L’interessata, pertanto, aveva impugnato il diniego di accesso integrale agli atti innanzi al TAR Lazio, che aveva accolto il ricorso. Conseguentemente, l’Istituto aveva proposto appello al Consiglio di Stato, il quale si è pronunciato nella sentenza del 5 marzo 2015, n. 1113, analizzando la rilevanza pubblica della comunicazione email spedita all’indirizzo privato del presidente e il bilanciamento tra le esigenze di tutela della riservatezza dell’autore della comunicazione e la garanzia del diritto alla difesa degli interessi giuridici dell’istante.
Il Collegio ha analizzato la censura dell’Istituto, basata sulla natura privata della comunicazione email oggetto di istanza di accesso e sull’argomentazione che la stessa sarebbe stata inviata all’indirizzo personale del presidente dell’ente e non all’indirizzo istituzionale del presidente stesso, che l’email non sarebbe stata quindi protocollata e che avrebbe, in effetti, un “tono confidenziale”, con ciò sottolineando l’intenzione del mittente che la stessa rimanesse privata.
L’Istituto, inoltre, sosteneva che tale comunicazione email inviata all’indirizzo privato del presidente non potesse rientrare nella nozione di “documento amministrativo” e quindi non fosse suscettibile di accesso ai sensi dell’art. 22 del Legge n. 241/1990.
In argomento, la lett. d) dell’art. 22 della Legge prevede che per documento amministrativo si intenda ogni “rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Pertanto, in relazione alla natura del documento, il Consiglio di Stato ha osservato che il contenuto dell’email non poteva ritenersi corrispondenza privata in quanto il presidente dell’istituto aveva provveduto a rendere edotti gli uffici dell’amministrazione dell’ente circa l’esistenza di tale informativa, di fatto rendendo di rilevanza pubblica il documento. In effetti, l’interessata era venuta a conoscenza dell’esistenza di tale comunicazione email perché il responsabile del procedimento, nell’atto di diniego dell’accesso, aveva fatto riferimento a essa come contenuto allegato al verbale: si trattava, dunque, di un documento ormai detenuto dall’amministrazione.
In merito, invece, all’esigenza di tutela della riservatezza del nominativo del mittente dell’email (nella quale si esponevano rimostranze sull’operato della dipendente), il Collegio ha aderito al consolidato orientamento giurisprudenziale che vede prevalere – soprattutto dopo la riforma della Legge n. 241/1990 operata con la Legge n. 15/2005 – il diritto di accesso agli atti amministrativi sul diritto alla riservatezza e alla privacy dei terzi[1], considerato recessivo quando si intende tutelare l’esigenza di difesa di un interesse giuridicamente rilevante tramite la visione o l’accesso al documento.
Nello specifico, in effetti, il comma 7 dell’art. 24 della Legge n. 241/1990 stabilisce che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”. La norma poi aggiunge che, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, in presenza di situazioni giuridiche di pari rango, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale di soggetti terzi[2].
Sul punto, il Consiglio di Stato ha ravvisato che non solo tale norma era stata violata con il diniego all’istanza di accesso all’allegato del verbale, ma che l’interessata aveva anche dimostrato la specifica rilevanza dell’integrale conoscenza di tale comunicazione email e del nominativo del mittente, sia ai fini della difesa nell’ambito del giudizio relativo al conferimento dell’incarico, sia per poter eventualmente instaurare un diverso giudizio a tutela del proprio onore e della propria reputazione professionale.
[1] Per completezza, in merito al delicato bilanciamento tra diritto di accesso e tutela della privacy si riporta anche quanto previsto dal comma 4 dell’art. 22 della Legge n. 241/1990, ove si stabilisce che “non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono”.
[2] In argomento, la giurisprudenza è solita individuare come canoni del bilanciamento tra accesso e privacy gli artt. 59 e 60 del D.Lgs. n. 196/2003 (Codice Privacy) e le disposizioni degli artt. 22 e ss. della Legge n. 241/1990 (ex multius si veda la sentenza del Consiglio di Stato del 14 maggio 2014, n. 2472); la disciplina che ne deriva delinea tre livelli di protezione dei dati di terzi, a cui corrispondono tre gradi di intensità della situazione giuridica che il richiedente intende tutelare con l’accesso: nel più elevato si richiede la necessità di una situazione di “pari rango” rispetto a quello dei dati richiesti; a livello inferiore si richiede la “stretta indispensabilità” e, infine, la “necessità”.
FONTE: Forum PA
AUTORE: Sarah Ungaro