Sono nati dei tavoli di lavoro all’interno dell’Agenzia per l’Italia Digitale che dovranno dare delle chiare indicazioni su come incentivare la cultura digitale a vari livelli. Facciamo il quadro

Siamo arrivati al 2014, dopo un anno e mezzo di progetti ed iniziative legate all’agenda digitale, questa agenda che al momento assomiglia più ad un blocco di appunti che ad un’agenda. Nei piani alti si sta lavorando con esperti nazionali ed internazionali ai grandi temi, arrivando alla (scontata) conclusione che gran parte dei problemi di mancata applicazione dell’agenda digitale sono legati ad una tematica: la cultura digitale.

Quando si parla di cultura spesso si commette l’errore di legarla esclusivamente alla formazione tradizionale (i cosiddetti “apprendimenti formali”) oppure a delegarla a chi è anagraficamente più incentivato ad utilizzarla (i cosiddetti “nativi digitali”). La cultura digitale deve diventare invece un principio di vita in qualsiasi ambiente: sociale, lavorativo ma soprattutto deve essere una spinta al miglioramento continuo. Tra i principali errori fatti in passato e costantemente rifatti ad ogni cambio legislatura vi è la priorità di definire degli obiettivi principali che sono sempre gli stessi: banda larga, anagrafe unica, fatturazione elettronica. Il problema di base è che in assenza di cultura digitale tutte queste “infrastrutture” vengono utilizzate in modo inadeguato o, come nel caso della banda larga, in modo prettamente ludico.

Siamo alla costante rincorsa della velocità di connessione ma rendiamoci conto che gran parte dell’utenza pone l’aspetto ludico ha come principale utilizzo della rete: basta visionare anche recenti pubblicità televisive per il lancio di reti mobili ad alta velocità dove il beneficio principale sembra essere quello di ascoltare canzoni e visionare video senza interruzioni. Siamo un paese ludico, ed è quindi necessario fare cultura digitale anche utilizzando questi strumenti per far comprendere i benefici di un uso del digitale nella vita di tutti i giorni. Per essere incentivati a tale utilizzo è necessario che dall’altra parte vi sia un’offerta adeguata di prodotti e servizi, che non sia una ennesima analogizzazione atta a portare on line macchinose e burocratiche procedure. Purtroppo questi problemi non sono solo legati alle PA ma anche in ambito aziendale. Manca una cultura generalizzata a comprendere i benefici dell’uso di strumenti Web-based, dell’archiviazione in cloud, della condivisione di archivi, dell’interoperabilità tra diversi sistemi. Spesso è pure il legislatore a disincentivare l’uso del digitale, in quanto non è in grado di far comprendere eventuali benefici della “migrazione” a nuovi sistemi di comunicazione che spesso riproducono la burocratizzazione analogica. Pensiamo alla PEC, ottimo strumento per inviare comunicazioni con ricevuta di consegna, visto spesso dalle aziende come un orpello burocratico sino al momento in cui comprendono di poter utilizzare tale strumento con altre aziende e/o PA evitando code per consegne a mano e costi di raccomandate. In un paese dove si parla di iniziative anacronistiche come webtax abbiamo timidi tentativi di avvicinarsi e/o di crescere con la presenza aziendale nel Web. Escludendo settori in cui il potenziale del Web è stato riconosciuto come traino già dallo scorso millennio (pensiamo al settore turistico) vi sono moltissimi settori sia nell’ambito dei servizi che nella vendita di prodotti che non sono mai decollati per l’assenza di adeguate competenze digitali all’interno delle aziende, spesso dovute anche all’assenza delle associazioni di categoria che hanno la colpa di aver spesso lasciato allo sbaraglio i propri associati, senza fare iniziative di rete per la valorizzazione della qualità italiana.

Come identifichiamo le competenze? Chi definisce le competenze? A tal proposito da qualche mese sono nati dei tavoli di lavoro all’interno dell’Agenzia per l’Italia Digitale che dovranno dare delle chiare indicazioni su come incentivare la cultura digitale a vari livelli. Per il livello di base è necessaria alfabetizzazione di massa: all’epoca della cabina di regia versione 1.0 (quella del governo Monti), si erano ipotizzate una serie di iniziative anche con il coinvolgimento di RAI e TV locali per una alfabetizzazione di massa modello “Maestro Manzi”; non un canale dedicato ma piccoli interventi in fasce orarie ad alta visibilità per spiegare i benefici delle tecnologie di comunicazione, per creare il bisogno dell’uso delle nuove tecnologie, coinvolgendo magari realtà sul territorio (ve ne sono molte, in tutto il territorio nazionale) per accompagnare all’alfabetizzazione le fasce di popolazione non integrate nel mondo del lavoro (anziani, ecc.).

Una seconda attività andrebbe svolta per riqualificare il personale sia di aziende che delle PA: l’era delle “patenti dell’uso del computer” è oramai finita, bisogna andare oltre, identificando competenze e conoscenze specifiche per definire programmi di apprendimento seri e che garantiscano un vero inserimento e/o riqualificazione nel mondo del lavoro. Su questo non dobbiamo reinventare la ruota digitale, visto che da anni è in corso un’attività del CEN (Comitato Europeo per la standardizzazione) citata tra i pilastri dell’agenda digitale europea basata sull’uso di un framework per identificare le competenze in qualsiasi settore: E-CF, di cui è in imminente rilascio la versione 3.

Per valorizzare in modo reale le offerte formative nel nostro paese è necessario che tutti gli attori riconoscano ed applichino questo framework, garantendo ai vari attori rispettivamente di offrire o acquisire risorse umane con competenze specifiche. Pensiamo solamente a tutto il mercato dei corsi FSE, in cui chiunque si affacci trova difficoltoso comprendere la reale valenza di mercato di un corso rispetto ad un altro. Grazie alla mappatura E-CF un qualsiasi discente potrà identificare le sue necessità formative e scegliere il percorso di qualificazione più idoneo. Lo stesso criterio si può applicare anche alla domanda e offerta di lavoro. Pensiamo ad esempio al settore ICT, dove l’applicazione di un modello come E-CF è essenziale per far incontrare la domanda e l’offerta. A tal proposito è di recente pubblicazione jobict.it creato da Sindacato Networkers (UILTuCS) e Assintel (Associazione Nazionale Imprese ICT) con il supporto di IWA Italy (associazione professionisti Web) e della Fondazione Politecnico di Milano per incrociare domanda e offerta di lavoro in ambito ICT, ritrovando profili e competenze basati sul modello E-CF tra cui i profili ICT e i profili di competenza Web. E pensare che in questo ambito l’Italia è capofila in Europa. Dal 26 settembre 2013 è in vigore la norma UNI 11506:2013 “Attività professionali non regolamentate – Figure professionali operanti nel settore ICT – Definizione dei requisiti di conoscenza, abilità e competenze”. La norma, che adotta l’e-CF secondo la realtà nazionale, si applica alle figure professionali che operano in ambito ICT, indipendentemente dalle modalità lavorative e dalla tipologia del rapporto di lavoro. Tale norma è oggetto di interesse da parte del CEN è ha ottime possibilità di diventare un modello di riferimento per tutto il mercato europeo. Similmente collegata a tale norma vi sono attività di normazione basate sulle nuove professionalità ICT tra cui la norma del professionista Web (nata su richiesta di IWA Italy e basata sul progetto skillprofiles.eu, ovvero la definizione condivisa di 21 profili di competenza professionale operanti nel Web) e degli esperti di sicurezza.

In ambito delle competenze digitali di tipo professionale pertanto la strada è già segnata sotto l’aspetto della normazione tecnica ed è ribadita anche da due norme nazionali. La prima è la legge 14 gennaio 2013, n. 4 “Disposizioni in materia di professioni non organizzate” che finalmente da una serie di indicazioni chiare alle associazioni professionali per definire criteri per tutte le professionalità non regolamentate da leggi (ovvero tutte le professioni per cui non esistono ordini e/o albi). La seconda è il decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13 contenente la “definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze”, che prevede una serie di compiti per diversi ministeri al fine di consentire una catalogazione delle attività di apprendimento formale (scolastico) e informali (extra scolastico) per garantire un determinato livello di qualità. Entrambe le norme fanno riferimento all’attività di normazione UNI, ovvero fanno presente che in ambito di certificazione del personale è essenziale che l’attività venga svolta da realtà accreditate sul territorio italiano (presso Accredia) a garanzia di indipendenza nella valutazione. Insomma, il termine “certificazione”, almeno a livello normativo, non potrà più essere abusato, ossia nessuna realtà che effettua formazione potrà anche certificare i propri discenti.

In conclusione si può dire che nel campo delle competenze digitali possiamo solo migliorare, e per migliorare non dobbiamo reinventare criteri di valutazione visto che ne esistono di già testati e supportati a livello internazionale. Compito degli italiani è quello di crederci, di capire che solamente integrando il lato digitale nella vita di tutti i giorni possiamo migliorare la nostra interazione con gli altri e “contagiare” chi ci sta intorno. Un ruolo importante deve averlo senz’altro il governo di definire una serie di obiettivi di alfabetizzazione di base, che dovranno essere supportati – ma realmente – anche dalle associazioni di categoria, investendo nella qualificazione delle competenze interne alle aziende ed alle PA per una riorganizzazione non solo tecnica ma anche organizzativa.