Per il vecchio petrolio questo non è davvero un buon momento, come non lo era ormai da tempo immemore. Sui mercati asiatici ha raggiunto un nuovo minimo dal 2009, toccando quota 47,41 dollari per il barile Wti, e fermandosi a 50,58 dollari per il Brent. Solo pochi mesi fa, chiunque avesse predetto cifre del genere sarebbe stato preso per pazzo. Non c’entra solo la crisi di domanda dovuta a una crescita anemica, o l’eccesso di offerta conseguente al boom dello shale: è la dimostrazione che la politica, nel bene o nel male, nonostante la finanziarizzazione ancora qualcosa conta in economia. E l’ha ribadito oggi Suhail bin Mohammed al-Mazrouei, il ministro del Petrolio degli Emirati Arabi: come riporta la Reuters, l’eccesso di offerta sul mercato del greggio può durare mesi o anche anni, ma i prezzi possono recuperare se i produttori non-OPEC «agiscono in modo razionale». Una minaccia neanche tanto velata, alla Russia in primis.

Ma anche se il prezzo del barile cola a picco, dei combustibili fossili è ancora oggi difficile dire di no, e chi ne detiene le redini ha ancora una grande influenza, decisamente troppa, sulle sorti politiche ed economiche dell’economia globale. Lo dimostra l’inquietante inchiesta “The Fossil-Fuel Industry Spent Big to Set the Anti-Environment Agenda of the Next Congress”, da poco pubblicata dal Center for American Progress, che si riferisce specificamente al mondo statunitense ma suggerisce che simili indagini in altri contesti (quello europeo in particolare) sarebbero tutt’altro che peregrine.

Negli Usa – si legge nell’inchiesta – un collegato ad un importante disegno di legge per il finanziamento della Difesa statunitense ha segnato una svolta  per le fortune politiche dell’industria del carbone, del petrolio e del gas statunitense e «per il loro ritorno al potere a Washington, D.C.».

Questa legge “pilota” della destra repubblicana riguarda le Bull Mountains, in Montana, un progetto della galassia dei famigerati fratelli multimiliardari Charles and David Koch, per estrarre carbone, che è il primo risultato dei più di 750 milioni di dollari investiti dalle Big Oil e dai King Coal per assicurarsi che i Repubblicani prendessero il controllo del Congresso e preparare il terreno ad un’agenda politca tutta pro-carbone, pro-trivelle ed anti-ambientale nel 2015.

Secondo Claire Moser e Matt Lee-Ashley, del Public Lands Project del Center for American Progress, «con il Congresso in gran parte in fase di stallo, gli interessi petroliferi, gasieri e carboniferi nel corso degli ultimi due anni hanno sempre concentrato le loro risorse per mettere politici amici dell’industria in carica in  entrambe le Camere, ponendo le basi per il nuovo Congresso per mandare avanti le loro priorità tematiche, quali l’approvazione della pipeline Keystone XL e l’aumento delle esportazioni di petrolio americano per  acquirenti stranieri».

Secondo un’analisi dei contributi e dei dati del lobbying fatta dal Center for Responsive Politics ed i dati della  spesa pubblicitaria di Kantar Media Intelligence/CMAG, pubblicati da Atla Project, «l’industria dei combustibili fossili  ha investito direttamente 721 milioni dollari –  e forse centinaia di milioni di dollari in più attraverso contributi ai gruppi esterni – al fine di assicurarsi un Congresso di sua scelta ed un’agenda energetica amichevole. A questi investimenti, l’industria dei combustibili fossili ha contribuito direttamente con  più di 64 milioni dollari a candidati e partiti politici, ha speso più di 163 milioni dollari in spot televisivi in tutto il Paese ed ha pagato quasi 500 milioni di dollari i lobbisti di Washington nei due anni precedenti le elezioni del novembre 2014».

Durante la campagna elettorale del 2014 le multinazionali petrolifere/gasiere, l’industria del carbone e le utilities elettriche  hanno contribuito con più di 84 milioni di dollari all’elezione di candidati ed alle spese di partiti politici e gruppi fiancheggiatori . «Di questo totale – si legge nell’indagine –  più di 64 milioni dollari sono andati direttamente a candidati e partiti, il 79,5% dei repubblicani a sostegno dei repubblicani ed il 20,5% a sostegno dei democratici. Oltre a questi contributi diretti per i candidati, ai membri in carica del Congresso ed ai partiti politici, le company del petrolio, del gas e del carbone e le utilities elettriche hanno speso  speso 493 milioni di $ per il  lobbying al 113° Congresso, più di 288 milioni dollari nel 2013 e quasi  205 milioni dollari nel 2014».

Un buon investimento visto che, oltre al via libera alle miniere di carbone nel Montana, le industrie estrattive hanno ricevuto altri grossi doni infilati nel bilancio della Difesa, tra i quali l’approvazione di una gigantesca e contestatissima miniera di rame in Arizona, nota come Risolution Copper,  e una serie di disposizioni approvate a dicembre che bloccano la protezione ambientale con una legge “cromnibus” che da sola vale 1,1 miliardi di dollari miliardi dollari.

Oltre ad investire in politici amici e in lobbying  l’industria dei combustibili fossili  nel 2013 e nel 2014 ha speso più di 163 milioni dollari in spot televisivi e in inserzioni pubblicitarie nei media statunitensi, per influenzare politicamente l’opinione pubblica. «Questi annunci – spiegano Moser e Lee-Ashley – sono mirati a influenzare l’opinione pubblica a favore delle priorità dell’industria, promuovere il brand dell’industria e sollecitare gli elettori a sostenere le priorità dell’industria nelle urne». Organizzazioni come l’American Petroleum Institute, America’s Natural Gas Association e multinazionali come la BP si sono date un gran daffare in campagna elettorale per sostenere il fracking, propagandando l’utilizzo e benefici dello shale gas e tentando di rassicurare l’opinione pubblica sulla sicurezza delle trivellazioni petrolifere offshore. Oltre a questi investimenti diretti, l’industria dei combustibili fossili ha indirizzato una valanga di dollari  attraverso gruppi fiancheggiatori per influenzare la composizione e l’agenda del nuovo Congresso Usa. arrivo. A partire dall’inizio del 2013, l’American Petroleum Institute e la Chamber of Commerce Usa hanno realizzato campagne pubblicitarie nazionali per costruire un sostegno politico per la famigerata Keystone XL pipeline delle sabbie bituminose.

I finanziamenti per gli spot elettorali, secondo l’inchiesta di American Progress, comprendono le  spese delle seguenti compagnie: «America’s Natural Gas Alliance, American Coalition for Clean Coal Electricity, American Petroleum Institute, BP, Citizens for Responsible Energy Solutions, Coal Jobs Count, Coloradans for Responsible Energy Development, ConocoPhillips, Illinois Petroleum Resources Board, Kansas Oil & Gas Resources Fund, National Mining Association, National Rural Electric Cooperative, Protecting Colorado’s Environment, Economy and Energy Independence, Shell, Transcanada Corporation ed Usibelli Coal Mine»

Queste stime delle spese dirette delle industrie dei combustibili fossili non comprendono gli investimenti politici alla Camera, ma l’American Petroleum Institute è sostenuta da grandi multinazionali petrolifere e gasiere come Chevron e Shell.  Le industrie petrolifere, gasiere e carbonifere hanno anche incanalato una quantità sconosciuta di denaro attraverso i cosiddetti dark-money groups che non sono tenuti a rivelare i loro finanziatori, come ad esempio le organizzazioni che fanno parte del network dei Koch. Le prime 6 organizzazioni controllate dai fratelli Koch hanno speso centinaia di milioni di dollari per le elezioni di medio termine; secondo il National Journal, da soli l’Americans for Prosperity e il Freedom Partners Action Fund nel 2014 hanno speso 100 milioni di dollari nei collegi elettorali in bilico. Queste organizzazioni del Koch-network non solo sono direttamente finanziati dall’industria petrolifera/gasiera con centinaia di milioni di dollari, ma sono diventate anche importanti protagonisti della lobby che impone le politiche energetiche pro-carbone, petrolio e  gas e le priorità ambientali statunitensi.

Nonostante l’attuale calo del prezzo del petrolio, i repubblicani del Congresso hanno messo in chiaro che l’agenda energetica dettata dagli interessi dei combustibili fossili sarà al centro delle politiche del nuovo Congresso: mentre il senatore repubblicano Mitch McConnell sfida il veto di Obama sull’oleodotto Keystone XL la senatrice repubblicana Murkowski dichiara che «nel 2015 sarebbe opportuno eliminare il divieto di esportazione di petrolio greggio». Come ha scritto il New York Times, i collegati al “cromnibus” «sono finalizzati a scaldare i cuori big-money dei donatori che rendono il Congresso sempre più vulnerabile alla corruzione da parte di interessi particolari».

Moser e Lee-Ashley concludono: «Dopo le centinaia di milioni di dollari spesi dalle industrie del carbone, del petrolio e del gas,  quali nuovi regali possono aspettarsi gli americani nei prossimi due anni?». Una questione pungente che sarebbe molto interessante girare anche ai vertici politici nostrani.

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