Il neo consulente dell’Agenzia per l’Italia Digitale racconta una visione che sta spingendo per diventare realtà anche in Italia: eliminando le resistenze del regionalismo Ict.

Ci siamo mai chiesti perché nella vita quotidiana molte cose funzionano “parlando” tra loro? Abbiamo mai pensato che dietro la possibilità di acquistare soluzioni di diversi produttori (in ambito ICT e non) e di poterle utilizzare con le medesime modalità vi sia qualcosa a monte che ne regola la progettazione e sviluppo? Se ce lo siamo chiesti almeno una volta, o se ve lo chiedete solo ora leggendo questo articolo, la risposta è: standard. Gli standard, o convenzioni, sono degli accordi fatti da soggetti interessati (stakeholder) per condividere dei principi di progettazione comuni. In ogni settore esistono degli standard, compreso il settore ICT dove, solo per l’ergonomia delle interfacce, esiste un’intera famiglia ISO 9241-xxx che va dalle modalità con cui si definiscono le tastiere, i mouse sino alle interfacce delle applicazioni (web e non). Questi standard vengono sviluppati con il consenso dei partecipanti, con rappresentanze provenienti da ogni paese.

Esistono altri “standard” invece che vengono prodotti da consorzi (come il consorzio del Web, o W3C), che comunque hanno una larga diffusione. Pensiamo ad esempio a specifiche come HTML, CSS che sono di fatto i linguaggi di riferimento per qualsiasi contenuto pubblicato nel Web.

Vi sono casi in cui è necessario invece avere degli standard specifici, in ambito nazionale e/o sovranazionale ed è pertanto necessario un coordinamento per il loro sviluppo ed applicazione. Pensiamo a tutti i dati attualmente gestiti dalle PA, in particolare dati relativi alla mobilità. Pensiamo ad esempio alla necessità di uniformare secondo uno standard nazionale i sistemi di bigliettazione. Ad oggi, viaggiando tra Venezia e Roma mi trovo con due differenti tessere con chip, entrambe “leggibili” dallo stesso lettore ma che non sono cumulabili, ovvero non vi è possibilità di avere un’unica tessera per muoversi nei diversi mezzi. Sempre in ambito mobilità pensiamo a tutti i dati degli spostamenti in tempo reale dei mezzi (autobus, treni, aerei, ecc.) che vengono archiviati dalle società di trasporto con differenti modalità, con necessità di sviluppare diverse applicazioni a seconda della città in cui ti trovi. Pertanto un “nomadic worker” deve possedere “n” applicazioni, “n” carte per potersi spostare ed informare in una stessa nazione (e spesso in una stessa regione). Se andiamo poi nell’ambito comunale, quante applicazioni vengono sviluppate per esporre informazioni e servizi ai cittadini?

Tutti questi servizi hanno una cosa in comune: si “inventano” degli standard “ad personam”, che rendono tali sistemi chiusi oppure apribili esclusivamente ad applicazioni specifiche, ovvero non garantiscono la possibilità di riutilizzo e di interoperabilità. Se poi ci allarghiamo al settore smart city, ci rendiamo conto che esiste una babilonia di formati, schemi, e quant’altro che rende impossibile una gestione delle informazioni senza elevati oneri di riuso / riconversione.

Per tali motivazioni è necessario che per tutte le tematiche inerenti l’interazione uomo/macchina e macchina/macchina siano definiti degli standard condivisi quantomeno in ambito nazionale, eliminando le resistenze del regionalismo ICT, magari assegnando questo ruolo alla realtà che per legge nazionale e relativo statuto definisce standard (AgID) e deve occuparsi “del coordinamento informatico dell’amministrazione statale, regionale e locale, anche in attuazione finalità di progettare e monitorare l’evoluzione strategica del Sistema Informativo della Pubblica Amministrazione favorendo l’adozione di infrastrutture e standard che riducano i costi sostenuti dalle singole  amministrazioni e migliorino i servizi erogati”.

È ben chiaro che tali standard dovranno nascere recependo, ove esistenti, standard internazionali evitando quindi di reinventare la ruota. Allo stesso tempo è auspicabile una legislazione nazionale che preveda la nullità di contratti di sviluppo e di acquisto di prodotti da parte delle PA ove gli stessi non utilizzino schemi ed ontologie condivise correlati agli standard.

La presa di posizione di questo articolo potrà sembrare “talebana” ma in un’ottica di interoperabilità e di riutilizzabilità di dati e servizi è essenziale, al fine di evitare ciò che sta succedendo ora con l’unificazione delle anagrafi. Per tale motivo solo una vittoria della linea di definizione di standard tecnici, di modalità condivise di dialogo tra basi dati e l’apertura delle stesse può salvarci dalla babilonia digitale e dalla relativa morte dell’interoperabilità.

 

 

FONTE: Agenda Digitale (www.agendadigitale.eu)

AUTORE: Roberto Scano

 

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