Dialogo con Rodolfo Fracassi, specialista in investimenti a impatto sociale: «Occorre sviluppare una mentalità e modelli di business capaci di rendersi autonomi rispetto alle sovvenzioni e alle donazioni». Domani intanto la Riforma approda alla Camera
MainStreet Partners, fondata nel 2008 e con sede a Londra è una società d’investimento indipendente specializzata negli investimenti ad impatto sociale ed ambientale. MainStreet investe direttamente o tramite altri fondi in aziende che oltre a soddisfare specifici requisiti di redditività, dimostrino un chiaro e misurabile intento di sviluppo sociale e/o tutela dell’ambiente. I principali settori d’intervento sono la microfinanza, le energie rinnovabili, il commercio equo-solidale, la sanità, l’educazione, l’housing sociale. Con oltre 150 milioni di dollari in investimenti realizzati in questi settori su scala internazionale, MainStreet ha dimostrato in questi anni che si può combinare il rendimento finanziario con lo sviluppo sociale e ambientale. A guidarla, in qualità di direttore e cofondatore è Rodolfo Fracassi. A lui abbiamo chiesto un giudizio sulle innovazioni che la nuova normativa dell’impresa sociale, contenuta nella riforma del Terzo Settore (domani la presentazione alla Camera dei Deputati, come ha comunicato via twitter l’onorevole Edo Patriarca) potrà introdurre, in particolare rispetto alla capacità di attrarre capitali da parte delle organizzazioni low e non profit.
MainStreet Partners è un’importante realtà impegnata negli investimenti sociali. Perché fino ad ora i fondi d’investimento sociali non hanno investito in Italia, se non in minima parte?
Gli investimenti ad impatto sociale si rivolgono a quelle aziende che per loro natura offrono beni e servizi primari prevalentemente a persone a basso reddito. Ovviamente tali beni e servizi devono essere offerti a prezzi che siano accessibili per gli utenti interessati e che allo stesso tempo permettano di garantire una sostenibilità economica dell’azienda. Tra questi ricadono i servizi finanziari per le micro imprese, l’offerta di cure mediche, l’educazione, l’accesso alla prima casa, il commercio equo e solidale di prodotti agricoli. Anche l’accesso a fonti di energia rinnovabile a costi contenuti in parte rientra in questa tipologia d’investimenti. Una gran parte di questi beni e servizi nei paesi sviluppati sono forniti direttamente dallo Stato o da imprese collegate in alcuni casi gratuitamente ed in altri a prezzi calmierati grazie alla presenza di specifiche politiche pubbliche. Per noi italiani sembra scontato e anche dovuto ricevere servizi quali educazione e sanità erogati dalla pubblica amministrazione a titolo gratuito o a prezzi contenuti. Questi servizi nel nostro ed in altri paesi fanno parte di quel welfare che garantisce un livello minimo di copertura per le principali esigenze dei cittadini. E’ necessario questo preambolo per capire perché gli investimenti ad impatto sociale sono nati e si sono diffusi prevalentemente nei paesi in via di sviluppo: infatti in questi paesi il concetto di welfare è quasi sempre assente, o molto limitato, quindi la fornitura di questo tipo di servizi e la capacità di renderli accessibili a persone a basso reddito è stata affidata all’iniziativa del singolo o di piccoli gruppi privati. La microfinanza è un ottimo esempio in tal senso: l’assenza di regole e strutture per fornire credito ai piu’ poveri, ha dato vita in Bangladesh a quel fenomeno che oggi riconosciamo in tutto il mondo ed è nata proprio cosi, dall’illuminata iniziativa di un singolo, di un imprenditore locale divenuto poi famoso in tutto il mondo. Allo stesso modo i modelli di cliniche a basso costo in India, di educazione in Africa, di fair trade in America Latina, di energia solare fornita nei luoghi piu’ sperduti del pianeta, sono tutti esempi di servizi frutto dell’iniziativa di piccoli imprenditori che sono partiti dal desiderio di fornire un servizio base ai propri concittadini la dove lo Stato era assente. Metteteci poi che in questi paesi il peso della burocrazia è molto limitato percui aprire e sviluppare un’azienda non è particolarmente complicato, che i margini sul fatturato sono generalmente alti e che la quantità di potenziali clienti per business di questo tipo è immensa e allora capirete come nei paesi cosiddetti di frontiera ci sono si elevati rischi, ma troviamo anche la miscela giusta per investire in business sociali che hanno tutte le carte in regola per avere interessanti ritorni oltre che risolvere concreti bisogni e problemi quotidiani.
Non solo in Italia, ma anche in molti altri paesi sviluppati per prima cosa queste esigenze si sono sentite di meno. Anche nei paesi sviluppati esistono fasce di popolazione con limitato accesso ai servizi di base ma rappresentano una percentuale minore rispetto ai contesti di cui abbiamo appena parlato. Inoltre lo Stato si è potuto permettere, nei passati decenni di crescita economica, di fornire direttamente o indirettamente – tramite imprese e ONG collegate o finanziate – tali servizi. La crisi degli ultimi anni ha da una parte ampliato il divario tra ricchi e poveri, facendo cadere nella povertà una parte di quella che prima era fascia a medio reddito, e dall’altra impoverito lo Stato stesso che oggi si ritrova indebitato al punto da dover cercare di mettere a posto i propri conti come priorità e non poter piu’ garantire la fornitura illimitata di molti di quei servizi che fino ad oggi davamo per scontati. Ecco che allora da questa duplice condizione nasce l’esigenza sempre piu’ forte oggi di far nascere e sviluppare dei business sociali anche nei paesi sviluppati, tra cui in Italia. Però questo richiede un cambio di approccio molto importante da parte di tutti gli attori coinvolti nei social business prima che questi siano definitivamente pronti per ricevere veri e propri investimenti. È necessario che cambino le imprese sociali in primis e che sviluppino una mentalità e modelli di business capaci di rendersi in parte o completamente autonomi rispetto alle sovvenzioni o alle donazioni, cosa piu’ facile a dirsi che a farsi visto che la leva del prezzo – per fare un esempio – in molti casi è difficile da toccare per la natura dei servizi offerti e degli utenti destinatari di essi. È necessario che tali imprese accettino anche costi del capitale piu’ elevati di quanto non abbiano visto fino ad oggi, senza arrivare agli eccessi della finanza speculativa ovviamente, ma nel momento in cui si introduce capitale in forma di azionariato remunerato o di debito piu tradizionale, certamente il costo del passivo si alza parecchio. È necessario che gli investitori capiscano due cose fondamentali relative al business sociale, ovvero che (1) non c’è futuro per il welfare senza imprese sociali gestite privatamente e che rispondono a regole di mercato, quindi rinunciare ad una piccola fetta di rendimento per fare investimenti sociali rispetto alle promesse dei ritorni della finanza tradizionale non è oggi solo un atto di bene, ma l’unica strada percorribile; (2) i business sociali di fatto non sono piu’ rischiosi in generale dei business tradizionali, al contrario per una serie di fattori legati alla natura dei servizi offerti e alle persone coinvolte nella gestione di tali aziende, presentano spesso profili di rischio piu’ bassi, quindi pretendere un premio per un rischio ritenuto superiore spesso non ha senso. Inoltre è necessario che gli intermediari entrino in gioco, ovvero le banche, le società d’investimento e tutti quegli attori che raccolgono, gestiscono e investono il capitale capiscano che devono cominciare a dialogare con i business sociali da una parte e che studino prodotti d’investimento capaci di offrire ai loro clienti un investimento facile in tali business. La domanda d’investimento nel sociale soprattutto tra i privati in Italia esiste ed è provato da diversi seppur limitati e recenti casi di successo, quindi gli intermediari devono cominciare a studiare soluzioni di finanziamento per i business sociali e di raccolta del capitale in tal senso da parte dei propri clienti piu’ sensibili. Infine però sarebbe ingiusto lasciare alla pura iniziativa del settore privato la ricerca di una soluzione per gli investimenti nelle imprese sociali. Perche come abbiamo detto all’inizio fare social business e investire nello stesso significa in parte – almeno nei paesi sviluppati – sostituirsi a quel welfare pubblico che oggi da solo non ce la fa piu. Quindi lo Stato a nostro avviso deve almeno in parte contribuire al finanziamento iniziale di questa nuova categoria di business sociali per catalizzare l’investimento privato e creare condizioni favorevoli per il suo sviluppo negli anni a venire. Questo approccio è stato adottato in diversi paesi che hanno puntato sul business sociale per risolvere problemi di welfare, come per esempio in Regno Unito da 10 anni a questa parte e quindi crediamo che lo stesso si debba fare in Italia.
La riforma del Terzo settore e in particolare il passaggio sull’impresa sociale potrebbe essere una leva affinché i fondi come il vostro possano incominciare a impegnarsi sul mercato italiano? Basta questa legge o serve altro?
È importante considerare che il concetto di impresa sociale nel mondo degli investimenti va oltre alla definizione legale che esiste non solo in Italia ma anche in altri paesi. È corretto ed utile avere una forma societaria specifica ma allo stesso tempo riteniamo che si possa guardare a diverse tipologie di imprese che operano negli ambiti precedentemente definiti. Per quanto riguarda la riforma attualmente in fase di evoluzione riteniamo che segni un importante passo avanti e che dia maggiori possibilità alle imprese sociali definite in senso stretto di attrarre capitali da investitori di natura privata (ovvero non pubblici). La distribuzione seppur parziale degli utili ed una serie di modifiche che saranno apportate faciliteranno a nostro avviso l’evoluzione necessaria per portare il settore verso il mercato dei capitali. Questo pero’ non è sufficiente, perche’ vanno messi in atto tutti i meccanismi precedentemente descritti ed atti a costruire un vero e proprio mercato dell’impresa sociale di cui la definizione giuridica, l’attrazione dei capitali e l’allargamento ai servizi offerti sono solo una parte. Per quanto ci riguarda stiamo già da tempo lavorando con i vari attori coinvolti, dagli investitori agli intermediari per fare un’azione di educazione sugli stessi di cosa sia l’impresa sociale, di quali siano gli strumenti che permettano di investire in questa nicchia di mercato e di come presentarli ai propri clienti. Allo stesso tempo abbiamo cominciato ad interagire con alcune selezionate imprese sociali per capire quali siano le loro esigenze non solo di finanziamento, ma soprattutto di sviluppo del business, del team, di gestione dei rapporti interni in ottica di nuovi investitori. E come pensano di affrontare questo tipo di cambiamento. Non possiamo dire di conoscere nel dettaglio le opportunità offerte dalla imprese sociali in Italia con la stessa profondità con cui oggi conosciamo lo scenario nei mercati in via di sviluppo, ma stiamo investendo tempo e risorse in questa direzione. Ad una prima analisi riteniamo che ci siano imprese sociali già pronte per attirare capitali privati anche rilevanti in quanto presentano le giuste dimensioni, un management molto capace, una nicchia di mercato ben presidiata e strategie di crescita chiare. Tuttavia le realtà di questo tipo sono ancora poche e la maggior parte invece si trova in una fase di sviluppo precedente che necessita oltre che di capitali anche di assistenza tecnica, di consulenza su diversi fronti e di un rapporto piu’ stretto con gli investitori. Questa seconda tipologia a nostro parere non è pronta per investimenti di natura completamente privata – perche’ non sarebbero in grado di rendere completamente sostenibile l’impegno economico di chi investe – e da qui l’esigenza di lavorare su strutture d’investimento locali, con tagli d’investimento piu’ piccoli e gestiti da realtà piu’ vicine all’imprenditore sociale di quanto possiamo fare noi al momento. In questa fase l’apporto di capitale pubblico sarebbe peraltro fondamentale.
Se potesse scegliere lei, come costruirebbe (modello di governance e funzionamento) il Fondo per l’impresa sociale annunciato da Renzi?
Qui mi ricollego a quanto scritto in precedenza che getta le basi per gli obiettivi che il fondo governativo per l’impresa sociale a nostro avviso dovrebbe porsi. Riteniamo che tale fondo debba porsi tre obiettivi fondamentali:
1) Creare un ecosistema;
2) Facilitare la nascita di strumenti dedicati e locali;
3) Catalizzare investimenti privati.
1. ECOSISTEMA
Gli esempi dei fondi governativi per le imprese sociali costruiti in Regno Unito, Francia, Germania e Stati Uniti in questi anni dimostrano un chiaro intento da parte dei rispettivi Governi di creare non solo un Fondo per capitalizzare o finanziare in generale l’impresa sociale, ma la decisione strategica di creare un ecosistema capace di catalizzare risorse private addizionali e durature nel tempo, in modo da garantire un accesso ai capitali per le imprese sociali autosostenibile oggi e negli anni a venire. Ovvero vi è il chiaro intento di creare un vero e proprio mercato della finanza sociale. Creare un mercato significa non solo mettere a disposizione il capitale in una fase iniziale, ma indurre la nascita e sviluppo di intermediari e strumenti esplicitamente dedicati all’impresa sociale coinvolgendo un ampio gruppo di investitori privati oltre che pubblici. Tali intermediari e strumenti devono essere sviluppati non solo a livello centrale ma soprattutto a livello locale perche’ alle competenze finanziarie e gestionali va affiancata la visione e la motivazione di chi vive il territorio quotidianamente e per questo conosce le esigenze pratiche soprattutto delle imprese sociali nelle prime fasi della loro vita.
2. STRUMENTI
Riteniamo che il Fondo governativo per essere efficacie debba dotarsi di due tipologie di strumenti: ovvero finanziamenti diretti all’impresa sociale sotto forma di capitale di debito e/o azionario, ma anche investimenti indiretti ovvero tramite intermediari privati che andranno a loro volta ad investire nelle imprese sociali, in varie forme e impiegando strumenti di diversa natura. Quando parliamo di intermediari privati non parliamo solo di nuovi fondi d’investimento dedicati all’impresa sociale, ci riferiamo anche all’infrastruttura esistente: l’Italia è uno dei paesi al mondo con la piu’ alta concentrazione di banche e la maggiore diffusione delle stesse a livello locale, tali intermediari conoscono bene le realtà locali ed hanno gli strumenti per analizzarle. Il capitale del Fondo governativo potrebbe essere convogliato almeno in parte sotto forma di finanziamento o di garanzia al sistema bancario locale, e tramite quelle banche nate per servire il terzo settore specificatamente. Il sistema bancario oggi esiste ed è diffuso, usiamolo e diamogli la possibilità di esporsi alle imprese sociali mitigando i rischi che tipicamente il finanziamento delle stesse presenta.
In sintesi è essenziale creare la partnership pubblico-privata a valle del Fondo governativo in modo da stimolare la nascita e lo sviluppo di intermediari che a loro volta potranno finanziare le imprese sociali per anni. Altrimenti si rischia di impiegare troppi soldi e troppo in fretta con la conseguenza di non realizzare un effetto duraturo nel tempo.
3. INVESTITORI
Mi preme qui sottolineare due aspetti. Da una parte la necessità di creare la partnership pubblico-privata sia a monte che a valle, ovvero la partecipazione di investitori istituzionali privati sia a livello di Fondo governativo direttamente (capitalizzazione dello stesso) ma anche e soprattutto a livello di investimenti locali per stimolare il percorso sopra descritto. Inoltre ricordiamoci che in Italia la categoria di investitori che nell’insieme dispone di più risorse restano le persone fisiche. È vero che esistono importanti investitori istituzionali come le Fondazioni e i Fondi pensione che peraltro già contribuiscono allo sviluppo sociale del territorio, ma la maggior parte del capitale nel nostro paese è di proprietà diretta dei privati. Quindi se si vuole avere una chance di catalizzare importanti risorse finanziarie per l’impresa sociale si deve pensare a strumenti d’investimento e ad una regolamentazione ad hoc che permetta anche agli investitori privati – e non solo a quelli istituzionali come di solito accade – di partecipare a questa evoluzione.
Una valutazione da esperto: in futuro quali possono essere i player (italiani e stranieri) interessati ad entrare nel social business italiano? Sul mercato internazionale chi e quanti sono i player orientati al social business?
Concentrandosi solo sul settore privato, dal nostro punto di vista vi sono principalmente cinque figure sul mercato interno in grado di favorire la nascita di un ecosistema favorevole al Social Business in Italia. Vediamo, dunque, quali sono questi cinque attori. In primis, le fondazioni di origine bancaria che, all’interno del loro statuto contengono precise linee guida volte a favorire lo sviluppo di iniziative a scopo sociale. Successivamente, i fondi pensione possono a loro volta giocare un ruolo fondamentale in questa partita, visto anche l’ingente patrimonio a loro disposizione, che si attesta intorno ai 110 miliardi di euro. Sempre sul fronte istituzionale, attori di rilievo possono essere le compagnie assicurative e le banche. Infine, di particolare interesse per il mercato italiano sono gli investitori individuali privati e retail, il cui patrimonio complessivo ammonta a oltre 500 miliardi di euro, rappresentando, di fatto, uno dei maggiori bacini di risparmio privato al mondo. Vista l’esperienza estera nel campo del Social Business in paesi sviluppati, come nel caso del Regno Unito, non risulta semplice l’identificazione di soggetti stranieri interessati ad allocare risorse finanziarie in un mercato diverso da quello interno. Questo in ragione di molteplici fattori, che spaziano da quelli più squisitamente sociali sino a quelli di natura fiscale. Infine, per quanto concerne lo scenario internazionale del Social Business, emerge con fermezza un trend positivo in paesi quali il Regno Unito e la Francia, dove sono state promosse iniziative volte ad incentivare gli investimenti in questo settore. Nel caso del Regno Unito, ad esempio, una forte spinta gli investimenti nel Social Business è stata data dal Governo, che ha allocato circa 600 milioni di sterline provenienti dai conti dormienti per la creazione di Big Society Capital, ovvero, una struttura dedicata esclusivamente alla finanza sociale. In Francia, invece, gli attori che sino ad oggi hanno maggiormente contribuito al Social Business sono identificabili nelle banche ed assicurazioni, ed in particolare quest’ultime, che rintracciano nella loro forma societaria mutualistica una maggiore spinta verso l’allocazione di risorse a favore di iniziative ad impatto sociale.
Da investitore ci fornisce una definizione di social business?
Il concetto di Social Business, per quanto possa apparire come un’innovazione, è in realtà già ben consolidato nel sistema economico italiano. Basti pensare al movimento cooperativo, che vede le sue origini a Torino a metà dell’800, quando nacquero le prime iniziative volte a radunare i lavoratori per la creazione di un benessere sociale ed economico diffuso all’interno della comunità. Oggigiorno possiamo definire Social Business una moltitudine d’iniziative in campo economico che hanno come obiettivo quello di erogare beni e servizi di utilità sociale per la società. Dal nostro punto di vista un Social Business di successo è rappresentato da un’azienda che sia in grado di avere una sostenibilità economica, e, contestualmente, offra beni o servizi in grado di generare un impatto sociale intenzionale e misurabile sul territorio di riferimento. Nel concreto, esempi di Social Business sono imprese attive nell’housing sociale, nel campo agro-alimentare, nella fornitura di cure mediche complementari alle strutture pubbliche. Inoltre, riteniamo caratteristica distintiva l’eventuale impiego di lavoratori svantaggiati o l’erogazione di servizi a favore di categorie svantaggiate o a basso reddito della popolazione. In conclusione, è importante sottolineare il fatto che dal punto di vista di un potenziale investitore, un Social Business deve necessariamente combinare la capacità di generare un ritorno e, contestualmente, un impatto sociale.
FONTE: VITA (www.vita.it)
AUTORE: Stefano Arduini