Quali sono i paesi europei che s’impegnano di più nella battaglia globale per il clima? È la ong tedesca Germanwatch a monitorare dal 2005 le strategie internazionali in questo campo. Il rapporto, realizzato in collaborazione con il Climate action networkEurope e con 250 esperti di tutto il mondo, si concentra sulle politiche e le economie dei paesi industrializzati. Producendo una classifica annuale, sulla base dell’indice della performance sul cambiamento climatico (Ccpi), che rende immediatamente leggibili gli atteggiamenti dei governi in materia di global warming. «È la miglior fotografia sul comportamento degli Stati emettitori – spiega Edoardo Zanchini, responsabile energia di Legambiente – Sono 58 e da soli producono il 90% delle emissioni».

L’ultimo rapporto del Germanwatch è stato presentato lo scorso novembre al summit dell’Onu sul clima di Varsavia, prendendo come sempre in considerazione vari fattori: l’utilizzo delle fonti rinnovabili, il livello delle emissioni, le politiche per il clima e l’efficienza. E anche quest’anno le prime tre posizioni sono rimaste vuote, poiché nessun paese finora ha adottato scelte in grado di arrestare l’alterazione del clima. Qualche segnale positivo però c’è. Le emissioni sul piano generale crescono infatti meno rispetto al passato, con la Danimarca che si conferma capofila di questa tendenza, posizionandosi al quarto posto grazie anche alle politiche per l’efficienza e al potenziamento delle rinnovabili. La seguono Regno Unito e Portogallo, che sta interpretando la crisi come un’opportunità per trasformarsi e migliorare, investendo sulla green economy.

E l’Italia? Passa dal ventunesimo al diciottesimo posto, grazie da una parte alla crisi economica che ha abbassato i consumi energetici e dunque le emissioni, dall’altra al supporto delle rinnovabili e dell’efficienza, entrambe in crescita. Basti pensare che nel 2013 il nostro paese ha superato la soglia dei 100 TWh di elettricità prodotti da fonti rinnovabili, all’incirca un terzo del totale, con 2.629 centri, secondo l’ultimo rapporto Comuni rinnovabili di Legambiente, che producono più energia elettrica di quanto ne consumino i residenti grazie a una o più fonti pulite (mini-idroelettrica, eolica, fotovoltaica, da biomasseo geotermica). Di segno opposto il risultato della Germania, che per la prima volta non si trova fra i primi dieci ma al diciannovesimo posto, proprio sotto l’Italia. Un’imperdonabile retromarcia che sta allentando la sua leadership europea nel campo della protezione del clima anche a causa del rifiuto, da parte di Berlino, d’impegnarsi nella riforma dell’Ets, il sistema europeo di scambio delle emissioni, per difendere le sue imprese energivore. «Attenzione però a trarre conclusioni affrettate, le posizioni del Germanwatch vanno lette nel breve periodo –avverte Andrea Boraschi, esperto di clima ed energia di Greenpeace – Ma se guardiamo al futuro, la Germania si è dotata di un piano di “transizione energetica” che, nonostante molte difficoltà, le permette di avere un indirizzo chiaro e coerente. All’Italia manca al contrario un piano di questo tipo e si ritrova adavere solo la Strategia elettrica nazionale prodotta lo scorso anno dal governo Monti, che fatichiamo a cogliere come linea guida per i prossimi anni».

Al di là del sorpasso sulla Germania, insomma, l’Italia non si può ancora definire un paese in prima linea nel contrasto al cambiamento climatico. Che cosa dovrebbe fare per diventarlo? «Innanzitutto i governi dovrebbero smetterla di mettere il bastone tra le ruote alle rinnovabili, bisognerebbe piuttosto osteggiare il trasporto su gomma e le fonti fossili puntando con decisione sull’efficienza» dice Boraschi. Aggiunge dal canto suo Zanchini: «La grande sfida che ha davanti l’Italia è mettere in campo una politica climatica ambiziosa in grado di rendere strutturali le significative riduzioni delle emissioni dovute alla recessione e superare la doppia crisi economica e climatica investendo nella green economy, come sta facendo il Portogallo».

La riconversione all’economia low carbon d’altro canto ha vincitori e vinti, la lobby dei fossili lo sa benissimo e non molla la presa. Così le ricadute sulle politiche energetiche dell’Ue si fanno sentire: la direttiva del 20-20-20 al 2020 (diminuire del 20% le emissioni, aumentare della stessa percentuale le rinnovabili e l’efficienza entro il decennio) varata nel 2008 era di forte impatto e la strada ora dovrebbe diventare quella del 30% in meno di emissioni entro il 2020 e del 95% al 2050, che consentirà di restare entro i 2°C di aumento globale della temperatura rispetto ai livelli preindustriali, limite indicato dall’Ipcc per evitare cambiamenti climatici incontrollabili. «Bisogna rilanciare l’impegno dell’Unione su questi temi e il semestre di presidenza italiana dovrebbe rappresentare un’occasione importante – è l’opinione di Zanchini – L’impressione però è che il nostro governo non colga questo obiettivo come una priorità: il cosiddetto decreto “spalma incentivi”, che penalizzerebbe il comparto italiano del fotovoltaico, lo dimostra». Il dibattito d’altronde verte tutto sull’indipendenza energetica dalla Russia: «È la grande questione dei G7, ora che la Russia è stata esclusa – afferma Boraschi – ed è anche per questo che paesi come la Polonia e i confinanti pongono il veto e rimangono affezionati ai vantaggi del carbone».

FONTE: La Nuova Ecologia, network di Legambiente

AUTORE: Lorenzo Strano

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