Milton Keynes, nel Regno Unito, conquista un primato: l’uso diffuso di tecnologie satellitari (GPS e navigatori) per indirizzare i cittadini lungo due importanti e frequenti destinazioni: i parcheggi delle auto e i contenitori per la raccolta dei rifiuti. Ma internet delle cose apre anche questioni e rischi
Man mano che le soluzioni di Internet delle cose – Internet of Things – si diffondono, appare sempre più chiaro che l’oggetto delle loro attenzioni non sono i semplici oggetti ma ciò che i nostri progenitori latini chiamavano res, una definizione molto più ampia. Non solo oggetti fisici e inanimati, ma anche realtà artificiali (processi, automi, macchine…) e soprattutto esseri viventi (uomini, animali, ma anche organi, temperature corporee, pressioni venose, concentrazioni di glucosio…). L’impero dei Big data e il trionfo della misurabilità non deriverà dai public open data – dati già prodotti e conservati dentro i sistemi amministrativi pubblici – ma dalla miriade di sensori che saranno dovunque e sempre pronti a captare fenomeni e a inviarli a sofisticati programmi per capire comportamenti e significati e anticiparne le criticità e i malfunzionamenti.
Va in questa direzione l’interessante esperimento urbano fatto nella città inglese di Milton Keynes.
Il primato è l’uso diffuso di tecnologie satellitari (GPS e navigatori) per indirizzare i cittadini lungo due importanti e frequenti destinazioni: i parcheggi delle auto e i contenitori per la raccolta dei rifiuti.
In entrambi i casi le informazioni utili non sono solo la loro ubicazione, ma il fatto che siano liberi (e non solo nel momento in cui decidiamo di raggiungerli, ma anche nel momento in cui li raggiungiamo). Nel caso dei parcheggi, infine, c‘è l’ulteriore esigenza di pagare (mentre nel caso dei rifiuti non si affronta il caso dell’identificazione dell’originatore del rifiuto né della sua tracciabilità…).
Un articolo del Guardian, su questa notizia, si sbizzarrisce poi nell’elencare possibili “res” da monitorare: edifici intelligenti, cani e gatti, bambini incustoditi, nonni con l’Alzheimer…
Ora questa mole di dati e queste applicazioni “a distanza di click” aprono alcune delicate questioni, oltre a quelle naturalmente della vera utilità (o della effettiva priorità rispetto ad altre criticità da risolvere). Non solo le questioni legate alla privacy – su questo tema il dibattito è finalmente iniziato e incomincia ad accalorarsi – ma quelle relative ai comportamenti che queste applicazioni suggeriscono e orientano. Siamo infatti proprio sicuri che questo sia il modo giusto di usare queste potenti tecnologie? Ritorniamo ai due processi sperimentati a Milton Keynes.
Come noto in entrambi i casi – mobilità urbana e gestione rifiuti – il vero tema nevralgico è e sarà non tanto usare con la massima efficacia le risorse disponibili – strade e aree di parcheggio nel caso della mobilità e contenitori per la raccolta di rifiuti – ma ridurre progressivamente il loro uso poiché i processi sono sempre meno sostenibili. E come noto – le difficoltà di utilizzo sono spesso formidabili inibitori di comportamenti.
Infatti l’inerzia e la pigrizia spingono sempre verso comportamenti più “comodi” (ma non necessariamente più desiderabili e salubri) e gli effetti negativi di tali comportamenti indotti si sono già visti nel mondo digitale. Ad esempio nel caso della ricerca delle informazioni sulla Rete, la facilità con cui si trovano su Wikipedia o su Google ha di fatto eliminato non solo il senso critico (per cui ci fidiamo di ciò che troviamo in questi siti e lo riutilizziamo senza pensarci due volte) ma sta addirittura depotenziando le nostre capacità di ricordo: gli esperti lo chiamano “Google effect” e si tratta della decisione di fare sempre di meno lo sforzo di ricordarci un’informazione – tanto sappiamo dove (ri)trovarla …
Il fenomeno – messo in luce da tre studiosi nel 2011 (Betsy Sparrow della Columbia University, Jenny Liu dell’Università del Wisconsin e Daniel M. Wegner di Harvard, Google Effects on Memory: Cognitive Consequences of Having Information at Our Fingertips) viene così descritto da Wikipedia: “the tendency to forget information that can be easily found using Internet search engines such as Google, instead of remembering it”.
Anche nel caso dei navigatori satellitari – protagonisti delle due applicazioni sviluppate a Milton Keynes e considerati oltretutto un ottimo e amorevole regalo di Natale – stanno crescendo i comportamenti indotti non proprio desiderabili.
Innanzitutto l’uso ricorrente dei navigatori mina la nostra “capacità di elaborazione spaziale e 3D”, aspetto fondamentale della memoria ed elemento che quando allenato ci permette di orientarci in luoghi che conosciamo appena e allena le nostre capacità rappresentative complesse (3D) nel nostro cervello: una sorta di Google Effect legato alla spazializzazione e capacità di orientamento.
Inoltre i sistemi satellitari possono essere “hackerati”. A luglio dell’anno scorso un gruppo di studenti dell’Università del Texas è riuscito a penetrare il navigatore satellitare di uno Yacht e – usando un finto sistema GPS – ha mandato segnali falsi (ma codificati con lo standard dei segnali GPS civili) che hanno cambiato la rotta dell’imbarcazione senza che l’equipaggio se ne accorgesse.
Infine i Car Navigator possono spingerci a comportamenti pericolosi e fuorilegge. Una ricerca fatta dalla società britannica ICM Research, ha stimato che nel 2011 in Inghilterra c’erano oltre circa 7 milioni di automobilisti che ogni giorno cercavano di “battere” il navigatore satellitare. Poiché questi sistemi sono molto efficienti e precisi nel calcolare il tempo necessario per raggiungere la destinazione (usando – in tempo reale – molti parametri come lunghezza del percorso, semafori, stato del traffico…), per batterli bisogna “superare le previsioni” e violare la legge. La ricerca ha messo in evidenza che oltre il 50 per cento dei guidatori intervistati dichiarava di superare i limiti della velocità e il 2 per cento ammetteva di aver avuto incidenti in queste “gare” con il navigatore (ad esempio urtando le macchine parcheggiate).
Morale: non bisogna certo fermare il progresso, ma almeno provare a indirizzarlo verso le soluzioni effettivamente più utili e soprattutto educare i consumatori a un uso ragionevole, consapevole e non lesivo di queste potenti tecnologie; inoltre bisogna monitorare continuamenti gli effetti di tale uso: spesso i comportamenti non desiderati non sono immediati e facilmente identificabili, ma emergono nel tempo, come le proprietà di un sistema complesso, che non possono essere dedotte analiticamente e aprioristicamente.
E certamente il sistema socio-tecnico che nasce dall’interazione dell’uomo con tecnologie sempre più sofisticate e adattive è un sistema complesso a tutti gli effetti.
FONTE: Agenda Digitale (www.agendadigitale.eu)
AUTORE: Andrea Granelli