Negli ultimi anni l’Italia ha perso 750mila lavoratori che probabilmente non verranno mai riassorbiti, ed il trend della disoccupazione non mostra rallentamenti. Eppure quando le aziende cercano personale con competenze particolari, riescono a trovarlo solo in 6 casi su 10. Per invertire la tendenza bisognerebbe investire in politiche “attive” di lavoro (formazione e orientamento), invece in Italia gli destiniamo solo il 1,9% della spesa, contro il 10,8% della Francia, il 18,8% della Germania. A gennaio è stato presentato il nuovo programma italiano sulla Garanzia per i Giovani, che si prefigge non solo rispondere all’emergenza, ma anche di avviare un piano di riforma strutturale del funzionamento del mercato del lavoro, cogliendo le opportunità del Fondo Sociale Europeo per la promozione di politiche più qualificate. Vediamo di capine di più
L’Italia è tra i paesi europei che dedica alle politiche attive del lavoro meno risorse, per altro quasi tutte assorbite dalla Cassa Integrazione Guadagni (nel 2012 la media delle ore di Cig erogata tradotte in occupati corrisponde a quasi 270mila persone registrate) e in generale dalle politiche passive o di supporto. Come fa notare Maurizio Sorcioni, Responsabile Staff di Statistica, Studi e Ricerche – Italia Lavoro in occasione del suo intervento a FORUM PA 2014, l’Italia riserva 1,7% del PIL alle politiche del lavoro contro una media UE-15 del 2%. La Francia destina a queste politiche il 2,4% del Pil, la Spagna il 3,6%, mentre la Germania, pur con un dato simile all’Italia (1,8%), investe proporzionalmente molto più in politiche attive (0,35% rispetto al nostro 0,031) piuttosto che in strumenti sussidiari (ammortizzatori sociali) del reddito da lavoro. E’ una chiara scelta, sottolinea Sorcioni, di non investire e di preferire delle forme economiche di sostegno al reddito, che hanno effetti a breve termine e quindi non risolutive, rispetto a una strategia dagli effetti a lungo termine che faccia leva sulla maggiore diffusione di servizi e politiche attive.
I sistemi di politica attiva sono basati su attività di orientamento indirizzate ai singoli individui, con l’obiettivo di definire percorsi congrui ad ognuno di essi capaci di portare ad un deciso miglioramento del proprio “capitale umano”. Mentre l’incentivo rappresenta un sostegno o un incoraggiamento transitorio, il miglioramento del capitale umano dà un contributo permanente alla competitività del singolo, della azienda e del sistema paese.
I giovani i più penalizzati
Questa mancaza di lungimiranza sul tema delle politiche per il lavoro penalizza particolarmente i giovani. La difficoltà di ingresso al mondo del lavoro, infatti, si sta traducendo in misura crescente nella disponibilità ad accettare lavori meno qualificati. C’è un crescente divario tra le competenze richieste dalle imprese e quelle in possesso dei giovani che si affacciano sul mercato del lavoro. Il così dettoSkills mismatch, che in Italia si attesta al 40% (dati 2010) – contro la media europea del 36% – equamente distribuito tra un 20% occupato in posizioni che richiedono competenze superiori rispetto a quelle possedute, e un 20% impiegato in mansioni che richiedono competenze inferiori. Quest’ultimo fenomeno viene definito overeducation o sottoinquadramento, e mette il policy maker davanti ad un paradosso: anche se la laurea offre opportunità superiori rispetto al diploma, quattro laureati su dieci svolgono un lavoro che richiederebbe un livello di istruzione più basso. Ecco anche spiegato il crescente abbandono degli studi universitari dei giovani italiani: abbiamo meno giovani laureati dei nostri partner europei (21,7%) e un tasso da abbandono tra i più alti (17,6%). Così col passare dei mesi e degli anni il popolo NEET – Not in Employment, Education or Training aumenta, fino a sfiorare i 2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano.
Una vera e propria emergenza dunque, che il Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali ha scelto di affrontare con il Piano sulla Garanzia per i Giovani, presentato alla Commissione europea in una prima versione a novembre 2013 e avviato a Gennaio 2014. Il Programma intende configurare un’ampia riforma strutturale del funzionamento del mercato del lavoro italiano. Il modello italiano della Garanzia Giovani mira a realizzare un rapporto sinergico tra i vari livelli di governo. Ad esempio i servizi che godono di forti economie di scala, come le piattaforme informatiche o i sistemi di monitoraggio e benchmarking, vengono meglio realizzati a livello centrale. Al livello centrale spetta anche far rispettare un insieme di regole semplici e comprensibili, standard minimi di servizio. Molti servizi rivolti direttamente alle persone – dai colloqui di orientamento alla formazione – possono essere svolti a livello locale.
La definizione di un quadro nazionale coerente, che superi la frammentazione delle competenze, è precondizione necessaria affinché i fondi comunitari trovino la giusta collocazione.
Ma come si inserisce tale iniziativa nel sistema italiano?
Il sistema italiano di servizi per l’impiego e politiche attive del lavoro è frutto di una serie di riforme che ha partire dal 1997 con il D.L.gs n.469/1997 hanno modificato il quadro normativo delle politiche del lavoro e di conseguenza i principi guida della governance del sistema Garanzia Giovani. Il decreto legislativo ha realizzato la trasformazione del collocamento nei servizi per l’impiego, sulla base di quattro fondamentali linee guida. In primo luogo, è stato ripensato il rapporto tra centro ed autonomie locali nella gestione delle politiche pubbliche. I compiti di gestione delle procedure pubbliche di incontro tra domanda e offerta di lavoro sono stati trasferiti dallo Stato alle Regioni ed alle Province, diventate mediante i Centri per l’impiego gli avamposti del nuovo sistema pubblico. Si è abbandonato progressivamente il sistema delle liste di collocamento per ripensare i Centri per l’impiego come strutture di servizio per il sostegno alla ricerca attiva di un nuovo lavoro, con la consapevolezza della necessità di integrare le politiche del lavoro, le politiche della formazione e le politiche sociali per aumentare i tassi di occupazione delle categorie di lavoratori con maggiori difficoltà all’inserimento o al reinserimento lavorativo.
Tuttavia la Riforma del Titolo V della Costituzione ha creato non poca confusione. Il quadro configurato è caratterizzato da competenze legislative concorrenti tra Stato e Regioni, bilanciate da poteri esclusivi dello Stato sui LEP (livelli essenziali delle prestazioni) e sui principi fondamentali, nel campo dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro e di competenze legislative esclusive (residuali) delle Regioni nel campo dell’istruzione e della formazione professionale. Ciò ha reso più frequenti le occasioni di conflitto di ruoli piuttosto che favorire atteggiamenti cooperativi (come, purtroppo, ha dimostrato l’incessante ricorso, senza precedenti sotto il profilo quantitativo, alla Corte costituzionale).
Per questo la Struttura di Missione, prevista dal decreto legge 28 giugno 2013, n. 76 (convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 99) ha cercato di configurarsi come sede partecipata da Stato, Regioni e Province, cui è affidato lo svolgimento di compiti “propositivi ed istruttori, in attesa della definizione del processo di riordino sul territorio nazionale dei servizi per l’impiego”. Con riferimento alla Garanzia Giovani e alla ricollocazione dei lavoratori destinatari dei cosiddetti “ammortizzatori sociali in deroga”, l’attività propositiva e istruttoria è destinata a trasformarsi in intese definitive e impegnative in sede di Conferenza Stato-Regioni.
Il mercato del lavoro in Italia
La recessione che il Paese sta attraversando ormai da 7 anni riflette l’effetto congiunto di diversi fattori che combinati tra loro hanno avuto conseguenze rilevanti. La conseguente caduta del PIL, più del 2% nel 2012, ha determinato una riduzione della domanda di lavoro, ma non di certo dell’offerta. Il mercato del lavoro è stato quello più colpito, con una perdita negli ultimi anni di circa 750mila posti che, secondo le stime, per essere riassorbiti richiederebbero una crescita economica superiore al 2% all’anno nei prossimi dieci anni. Aspettativa quanto mai fantasiosa.
E non è tutto. Se ci allarmiamo nel leggere che la percentuale di disoccupazione ha superato il 12% (il 13% se pensiamo solo all’occupazione femminile) dovrebbe ancor di più farci riflettere il fatto che l’entità delle perdite occupazionali è stata contenuta dalla riduzione delle ore lavorate per occupato e dalla flessione della produttività. CIG, la riduzione delle ore di straordinario e maggiore diffusione del part time (in particolar modo nella fascia femminile della popolazione) hanno frenato la perdita di occupati che avrebbe altrimenti raggiunto le 870mila persone. Quella del part time, intesa come scelta “involontaria” cioè di lavoratori che non hanno trovato altro impiego pur cercandolo o che hanno dovuto ridurre l’orario di lavoro per il mantenimento del posto, è un dato che in Italia è superiore a quello di tutti gli altri paesi europei. Intanto l’offerta di lavoro continua da aumentare e non dipende solo dal fattore “giovani” – seppur il più colpito – e dal posticipo dell’età pensionabile, ma anche dall’aumento della “partecipazione”. Soggetti precedentemente non attivi hanno iniziato a cercare un lavoro, spinti della necessità di sostenere la propria famiglia in questo periodo di crisi. Un fenomeno che ha coinvolto in particolare la componete femminile. Donne che non lavoravano o che erano uscite dal mercato del lavoro tornano o cominciano a partecipare, spesso però in posizioni poco qualificate.
Se nelle statistiche ufficiali al numero dei disoccupati affiancassimo anche quello degli inattivi ora alla ricerca, avremmo un quadro molto più ampio, ben 900mila persone circa. Un numero impressionate se si considera che è forza lavoro non utilizzata, che causa delle perdite sia economiche che umane. Il deterioramento umano di chi rimane fuori dal mercato è un danno individuale che comporta una perdita sociale, sia per le ridotte potenzialità di crescita sia per le esternalità negative nei rapporti sociali.
L’Europa raccomanda
La raccomandazione europea del 22 aprile 2013, la “Garanzia per i Giovani” (Youth Guarantee), sancisce un principio di sostegno ai giovani fondato su politiche attive di istruzione, formazione e inserimento nel mondo del lavoro che, promuovendo la prevenzione dell’esclusione e della marginalizzazione sociale, introduce un finanziamento importante con valenza anche anticiclica nelle regioni dove la disoccupazione giovanile risulta superiore al 25%.
La Garanzia per i Giovani impegna gli Stati europei che la sottoscrivono a “garantire che tutti i giovani di età inferiore ai 25 anni ricevano un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio entro un periodo di quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema di istruzione formale”. La coorte di riferimento è 15-24 anni, ma in alcuni casi i programmi possono essere estesi fino ai 29 anni. Il “patto” tra lo Stato e il giovane viene sottoscritto al momento della registrazione presso un servizio per l’impiego. Nel caso di giovani non registrati ogni Stato Membro definisce un canale equivalente di accesso alla Garanzia.
Le misure da intraprendere, secondo la Raccomandazione, dipendono dalle caratteristiche del giovane e possono essere: reinserimento nel sistema della formazione e/o dell’istruzione, nel caso diearly school leavers o di persone con scarsa qualificazione professionale; definizione di percorsi di inserimento personalizzati nel mercato del lavoro; interventi sui costi indiretti del lavoro; promozione della mobilità del lavoro; promozione di start-up.
FONTE: Forum PA
AUTORE: Eleonora Bove