La Corte di Cassazione si pronuncia su un argomento molto “caldo” in ambito dei rapporti di lavoro: quello delle registrazioni tra colleghi, un tema a metà tra diritto di difesa e diritto alla privacy. Scopriamone di più.
È legittimo registrare un collega per difendersi in tribunale? Una recente sentenza della Cassazione fa chiarezza su un nodo cruciale che interessa molti professionisti: il confine tra privacy e diritto di difesa.
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 5844/2025) riaccende il dibattito sul delicato equilibrio tra diritto alla riservatezza e tutela giudiziaria, affrontando un caso emblematico che coinvolge un medico sottoposto a procedimento disciplinare.
Il professionista era stato sanzionato per aver registrato una conversazione con un collega, utilizzata successivamente come prova in un processo penale a suo carico. Secondo l’organo disciplinare, tale comportamento avrebbe compromesso il rapporto fiduciario tra medici, violando sia il codice deontologico che la normativa sulla protezione dei dati personali, in particolare il Regolamento UE 2016/679 (GDPR), per l’assenza di consenso al trattamento dei dati.
Registrazioni tra colleghi: quando il diritto di difesa supera la privacy
La Cassazione però ha ribaltato tutto: la registrazione – si legge nella decisione – è pienamente legittima se finalizzata a tutelare un proprio diritto in sede giudiziaria. Un principio sancito all’epoca dall’art. 24 del Codice Privacy e oggi confluito nell’art. 9, paragrafo 2, lettera f del GDPR.
Più nel dettaglio, il paragrafo 1 dell’art. cit. dispone che “È vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona.”
Tuttavia, il paragrafo 2 prevede delle eccezioni, tra cui, appunto, quella indicata alla lett. f), ossia quando “il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”.
Non è dunque necessario il consenso dell’interessato, purché l’utilizzo della registrazione sia strettamente collegato all’obiettivo difensivo e limitato nel tempo.
La legittimità di tali condotte in ambito giuridico
Non si tratta di un orientamento isolato: la giurisprudenza aveva già riconosciuto la legittimità di simili condotte in ambito lavorativo, annullando sanzioni disciplinari a dipendenti che avevano registrato colleghi sul posto di lavoro per difendersi da contestazioni aziendali. Anche in quei casi, la registrazione tra presenti era stata ritenuta conforme alla normativa se usata con finalità di autotutela.
Con questa nuova pronuncia, la Suprema Corte estende tali garanzie anche ai procedimenti disciplinari in ambito sanitario, sottolineando che il diritto alla difesa può prevalere sulla privacy dell’altro interlocutore – a condizione che chi registra sia parte attiva nella conversazione. Resta infatti esclusa la liceità di registrazioni fatte all’insaputa di terzi quando il soggetto non è presente al dialogo: in questi casi si rischia un illecito sia civile che penale.
In conclusione, se sei coinvolto in un procedimento disciplinare e vuoi tutelarti, puoi registrare una conversazione solo se sei parte del dialogo e l’uso della registrazione è necessario per difenderti in tribunale. Un indirizzo chiaro da parte della giurisprudenza di legittimità, che contribuisce a definire i confini tra privacy e diritto di difesa nel contesto professionale.