La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 15 maggio 2025 (1260 R.G.A. 2024) offre un’importante, ma discutibile, chiave di lettura in merito ai confini dell’incompatibilità tra il pubblico impiego e l’esercizio di un’attività da libero professionista, in particolare quella forense.
La pronuncia si distingue per aver chiarito, in maniera incisiva, che la mera iscrizione a un albo professionale non è di per sé sufficiente a configurare la violazione dell’obbligo di esclusività posto a carico del pubblico dipendente, richiedendo invece la non proprio agevole prova del concreto, effettivo, continuativo, abituale e prevalente esercizio della professione. Questo principio riafferma la centralità dell’onere della prova a carico del datore di lavoro pubblico in sede disciplinare, garantendo una maggiore tutela al lavoratore.
Il caso
La controversia in esame ha visto come protagonista un funzionario amministrativo di un Comune siciliano, licenziato dall’ente in ragione dall’omessa comunicazione, da parte dello stesso, della relativa iscrizione presso l’Ordine degli Avvocati di appartenenza e dalla mancata informazione all’Ordine stesso circa la sussistenza del suo rapporto di lavoro subordinato con il Comune.
L’Amministrazione comunale aveva ritenuto tale condotta violativa delle norme di incompatibilità con la qualifica di pubblico dipendente e con l’esercizio della professione forense.
Il Tribunale di Agrigento, con sentenza n. 671/2024 del 7 maggio 2024, aveva respinto le domande attoree, ritenendo legittimo il licenziamento e disattendendo le eccezioni preliminari del ricorrente. Secondo il giudice di prime cure, la condotta del dipendente non poteva essere giustificata da un presunto silenzio assenso del Comune, e la sanzione del licenziamento senza preavviso era considerata adeguata. Contro tale pronuncia, il dipendente licenziato ha proposto appello.
I motivi dell’appellante
L’appellante ha sollevato tre motivi di gravame:
1. la tardività dell’azione disciplinare;
2) il mancato esercizio del potere di diffida previsto dall’art. 63 del D.P.R. n. 3/1957 (richiamato dall’art. 53, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001), entrambi ritenuti non meritevoli di accoglimento;
3) e la contestazione della rilevanza disciplinare della condotta posta in essere e della proporzionalità della sanzione irrogata, motivo quest’ultimo ritenuto, al contrario, fondato e pertanto accolto dalla Corte di Appello di Palermo.
Con il terzo motivo il ricorrente ha invero sostenuto di non aver mai esercitato la libera professione, non avendo emesso fatture né aperto la partita IVA, e che la lettera che lo stesso aveva indirizzato proprio al Comune nella qualità di “avvocato” non integrava un atto tipico della professione forense. Ha inoltre posto in evidenza la sua buona fede e la sua immediata cancellazione dall’albo dopo la contestazione, nonché i suoi numerosi anni di servizio formalmente irreprensibile.
Incompatibilità tra attività di libero professionista e pubblico impiego
Al riguardo, la Corte ha precisato che l’incompatibilità con il pubblico impiego, ai sensi dell’art. 53 D.Lgs. n. 165/2001 (che richiama l’art. 60 D.P.R. n. 3/1957), riguarda l’esercizio di una “qualsiasi professione”. La ratio di tale norma trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 98 della Costituzione, che impone ai pubblici impiegati di essere “al servizio esclusivo della Nazione”, rafforzando il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost.. Tale principio può essere compromesso solo dall’esercizio effettivo di un’attività incompatibile. Pertanto, per la Corte, non è sufficiente la mera iscrizione all’albo, ma è necessario il concreto svolgimento di un’attività libero professionale.
In tal senso, è stata richiamata la specifica disposizione normativa di cui all’art. 21 della L. n. 247/2012, che stabilisce che la permanenza dell’iscrizione all’albo è subordinata all’esercizio della professione in modo “effettivo, continuativo, abituale e prevalente”. Se l’iscrizione all’albo può fornire un elemento presuntivo dell’esercizio effettivo e abituale dell’attività professionale, essa, per acquisire pieno valore probatorio, deve essere accompagnata da altri indizi convergenti, quali, a titolo esemplificativo, l’accensione della partita IVA o la sussistenza di un’organizzazione materiale predisposta dal professionista a supporto della sua attività.
L’iter ricostruito dalla Corte
Su questo punto, la Corte ha sviluppato il ragionamento circa l’onere probatorio in capo al datore di lavoro. Ha invero sottolineato essere onere del datore di lavoro (l’amministrazione pubblica) allegare e dimostrare tali indizi a sostegno dell’azione disciplinare. Nel caso di specie, il Comune non ha allegato alcun altro elemento, oltre alla lettera dello stesso (ex) dipendente, che potesse rivelare l’esercizio continuativo della professione. Tale lettera, sebbene redatta dal funzionario pubblico nella qualità di “avvocato”, non è stata considerata un atto tipico della professione forense, ritenendosi che il suo contenuto potesse essere redatto da chiunque.
Inoltre, è risultato che il funzionario licenziato non aveva provveduto ad aprire la partita IVA, il che si è ritenuto suggerire l’assenza di redditi da lavoro autonomo e rafforzare la prova contraria fornita dall’incolpato. La mancata segnalazione della situazione di incompatibilità al Consiglio dell’Ordine di riferimento, pur rilevante sul piano della disciplina professionale, non assume – a dir della Corte di Appello – rilievo disciplinare ai fini dell’obbligo di fedeltà e esclusività verso l’Amministrazione di appartenenza.
Le conclusioni dei giudici
Pertanto, la Corte ha concluso che il quadro probatorio addotto dal Comune non era sufficiente a sostenere l’addebito contestato, dichiarando l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto dedotto in contestazione.
La declaratoria di illegittimità del licenziamento ha comportato il diritto del dipendente licenziato alla reintegra nel posto di lavoro con effetti ex tunc, oltre alla condanna del Comune al pagamento di un’indennità risarcitoria pari alle mensilità dell’ultima retribuzione maturate dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, comunque non superiore a ventiquattro mensilità, dedotto quanto percepito da altre attività lavorative, e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
È stata invece confermata la statuizione di primo grado quanto al rigetto della domanda di risarcimento per la lesione al diritto all’immagine, per mancanza di prova dell’effettiva sussistenza del pregiudizio.
I riferimenti giurisprudenziali
La sentenza della Corte di Appello di Palermo si inserisce in un solco giurisprudenziale volto a delimitare in modo preciso la nozione di incompatibilità nel pubblico impiego.
Il fulcro della pronuncia risiede invero nel terzo motivo di appello e nelle ragioni del suo accoglimento, specificamente con riferimento al tema della prova dell’esercizio della libera professione.
La Corte ha ribadito che la mera iscrizione ad un albo professionale non è sufficiente ai fini probatori per fondare un licenziamento disciplinare per incompatibilità.
Si afferma, infatti, che l’iscrizione ha un mero valore di indizio, che, per acquisire pieno valore probatorio, deve essere corroborato da altri eventuali indizi convergenti, come l’apertura della partita IVA o la predisposizione di un’organizzazione materiale per l’attività.
Tale ragionamento sottolinea l’onere probatorio in capo al datore di lavoro (il Comune nel caso specifico).
È l’amministrazione che, volendo irrogare una sanzione disciplinare grave come il licenziamento senza preavviso, deve dimostrare in modo rigoroso il concreto e non equivoco svolgimento dell’attività incompatibile.
La semplice esibizione di una lettera firmata “da avvocato”, non riconducibile a un atto tipico della professione forense, e in assenza di altri elementi (come l’assenza della partita IVA) si è rivelata – ad avviso della Corte di Appello – insufficiente.
A livello normativo, la sentenza richiama con chiarezza la ratio dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, riconducendola al fondamento costituzionale di cui all’art. 98 della Costituzione (pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione), e sottolinea come tale principio venga compromesso solo dall’esercizio effettivo dell’attività.
Viene inoltre evidenziata l’importanza dell’art. 21 della L. n. 247 del 2012, che definisce le condizioni (effettività, continuità, abitualità e prevalenza) necessarie ai fini della permanenza dell’iscrizione all’Albo di cui trattasi.
Le implicazioni della Sentenza
Questa decisione traccia, pertanto, il solco di un importante monito per le amministrazioni pubbliche, invitandole a condurre accurate indagini probatorie prima di procedere a licenziamenti per incompatibilità, e, se da un lato rafforza le garanzie procedurali e sostanziali a tutela del pubblico dipendente ponendo un freno a interpretazioni estensive che potrebbero indebitamente penalizzarlo, dall’altro non si sottrae al rischio di ingenerare nei componenti degli Uffici disciplinari delle stesse atteggiamenti arrendevoli rispetto all’obbligo di perseguire comportamenti disciplinarmente rilevanti al cospetto dell’imposizione di “oneri investigativi” che sembrerebbero quasi assumere i connotati di una vera “probatio diabolica”, con il grave rischio, ove non ottenuta, di poter essere chiamati a rispondere delle correlate conseguenze pecuniarie.