L’ennesima tornata referendaria si è conclusa con un esito prevedibile: il quorum non è stato raggiunto e i quesiti sono stati rigettati.
Al netto del merito delle proposte in campo – tutte legittime, così come legittima è stata la scelta di non partecipare al voto, prevista dallo stesso meccanismo del referendum abrogativo – ciò che emerge con chiarezza è la progressiva inefficacia di uno strumento che, nella sua configurazione attuale, sembra incapace di rispondere alla realtà sociale e politica contemporanea.
Previsto dall’art. 75 della Costituzione e disciplinato dalla legge 25 maggio 1970, n. 352, il referendum fu concepito in un contesto storico profondamente diverso. All’epoca, raccogliere cinquecentomila firme era un’impresa logisticamente ardua e impegnativa, e il corpo elettorale contava poco più di 38 milioni di cittadini. Oggi, con oltre 51 milioni di aventi diritto, lo stesso numero di sottoscrizioni ha un peso specifico sensibilmente inferiore. E se mezzo secolo fa le firme venivano raccolte in presenza, tra banchetti e autenticazioni, oggi la tecnologia consente – o consentirebbe – sottoscrizioni da remoto, in piena sicurezza e tracciabilità.
La realtà è che l’istituto ha perso slancio, soffocato da una combinazione di vetustà normativa e sovraesposizione politica. Basti ricordare i dodici quesiti referendari del 1995 per comprendere come, nel tempo, lo strumento sia stato spesso abusato e snaturato. Nel frattempo, il contesto sociopolitico del Paese è mutato radicalmente: la partecipazione civica ha assunto forme nuove, mentre l’istituto è rimasto ancorato a logiche novecentesche.
In Parlamento si discute di riforme costituzionali che mirano a correggere alcuni squilibri evidenti. Le proposte in campo – dalla revisione del quorum con meccanismi di approvazione al 25%, all’innalzamento delle firme richieste – rappresentano un passo, ma non affrontano in profondità l’occasione storica data dalla transizione digitale. Tra queste, si segnala la proposta avanzata da Stefano Ceccanti (PD, XVIII legislatura), che prevedeva l’aumento delle firme da 500.000 a 800.000 e l’introduzione di un quorum “approvativo”, pari al 25% degli aventi diritto o al 50% dei votanti alle precedenti elezioni politiche.
Simile l’impostazione del disegno di legge costituzionale n. 1089/2019, promosso da PD e M5S, che oltre al quorum approvativo prevedeva un controllo di ammissibilità preventivo da parte della Corte Costituzionale a partire da 200.000 firme raccolte. A oggi, tuttavia, nessuna di queste iniziative ha completato l’iter parlamentare, né ha affrontato in modo organico l’integrazione tecnologica degli strumenti di democrazia diretta.
Una vera riforma del referendum dovrebbe partire proprio da qui: dall’integrazione delle tecnologie di identità digitale nell’esercizio dei diritti civili, tra cui la sottoscrizione e il voto referendario. In questi anni, l’Italia ha compiuto progressi rilevanti nel riconoscimento e nella diffusione delle identità digitali, attraverso strumenti ufficiali come lo SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) e la Carta d’Identità Elettronica (CIE), introdotti nel quadro del Codice dell’Amministrazione Digitale (d.lgs. 82/2005) e successivamente normati da regolamenti attuativi e linee guida AgID. Tali strumenti sono già utilizzati per firmare atti pubblici, accedere a servizi sanitari, presentare istanze e certificazioni, e dunque risultano pienamente coerenti anche per estendere in modo sicuro e tracciabile l’esercizio dei diritti politici.
Questo approccio permetterebbe anche di rivedere al rialzo la soglia delle firme richieste – fino a un milione e mezzo di sottoscrizioni, lasciando invariato il quorum attuale. Un obiettivo che potrebbe apparire ambizioso, certo, ma siamo convinti che l’effetto facilitatore dei sistemi digitali contribuirebbe a riavvicinare il corpo elettorale all’esercizio delle sue funzioni sovrane, rendendo la partecipazione più accessibile, concreta e motivata.
Una riforma in tal senso avrebbe inoltre una funzione propedeutica e strategica: aprirebbe la strada all’introduzione, facoltativa e graduale, del voto elettronico a tutti i livelli istituzionali, sul modello delle democrazie più avanzate. Una simile prospettiva rappresenterebbe una concreta occasione di riavvicinamento per le nuove generazioni, spesso distanti dalle urne tradizionali ma perfettamente integrate nel linguaggio e nelle dinamiche digitali.
Dopo questa ulteriore occasione mancata e un inevitabile esborso economico a carico dell’erario, è evidente che è ora – o forse mai più – di tornare al futuro. L’Italia ha bisogno di ridare forza e dignità agli strumenti di democrazia diretta, adattandoli alle condizioni e alle potenzialità del presente. Solo così potremo rimettere in moto – davvero – la partecipazione popolare.