Con questa ultima scheda si analizza il quesito sulla Cittadinanza italiana per stranieri, l’unico nel Referendum dell’8 e 9 giugno che non riguarda la materia del lavoro, trattata invece da quelli su Licenziamenti illegittimi e contratto a tutele crescenti, Indennità per licenziamenti nelle piccole imprese, Contratti di lavoro a tempo determinato e Responsabilità solidale negli appalti.
- Quesito n. 5: «Cittadinanza italiana – Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana»
- Risvolti dell’attuale normativa
- Con il referendum si vuole introdurre lo ius soli o ius scholae?
- Come funziona nei maggiori Stati UE?
- Le ragioni del SÌ
- Le ragioni del NO
Quesito n. 5: «Cittadinanza italiana – Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana»
Sulla scheda di colore giallo troviamo il quinto quesito sottoposto alla consultazione popolare. Con esso si affronta la materia della cittadinanza italiana, regolamentata dalla legge n. 91/1992, secondo cui può essere concessa per naturalizzazione agli stranieri che abbiano risieduto legalmente e continuativamente nel nostro Paese per almeno 10 anni.
Con il referendum si chiede la modifica di alcune parti dell’art. 9, dimezzando il tempo di residenza legale da 10 a 5 anni, così come era previsto dalla precedente normativa, rimasta vigente dal 1865 fino alla modifica del 1992.
In premessa va ricordato che l’attuale disciplina si basa sul principio dello ius sanguinis, per cui l’acquisizione della cittadinanza è imperniata sull’elemento della discendenza o della filiazione.
Essa, pertanto, viene conseguita automaticamente solo se si nasce, o se si viene adottati, da almeno un genitore italiano.
Risvolti dell’attuale normativa
Alla luce della normativa vigente, uno straniero maggiore di anni 18 adottato da cittadino italiano può richiedere la cittadinanza dopo 5 anni di residenza nel nostro Paese (art. 9, comma 1b della legge n. 91/1992), mentre tutti gli altri stranieri provenienti da Paesi extra-UE debbono essere legalmente residenti da almeno 10 anni (art. 9, comma 1f).
Dunque, un bambino nato in Italia da genitori entrambi stranieri per poterla ottenere deve attendere almeno il compimento del diciottesimo anno e dimostrare di aver vissuto ininterrottamente nel nostro Paese per tutto questo periodo.
L’unica possibilità di abbreviare i termini è che venga acquisita da uno dei suoi genitori, di modo che possa trasmettergliela, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 91/1992.
Formalmente il quesito non apporta modifiche alla normativa specifica per i minori, ma è indubbio che la riduzione a 5 anni dell’obbligo di residenza per i genitori possa, indirettamente, semplificare anche l’ottenimento della cittadinanza per i bambini stessi, portandoli fuori da una condizione di incertezza legale che spesso ne pregiudica l’inserimento socio-educativo e ne limita svariati diritti.
Con il referendum si vuole introdurre lo ius soli o ius scholae?
Assolutamente no, e le differenze sono sostanziali.
La fattispecie dello ius soli riguarda le legislazioni in vigore in alcuni Paesi, dove si attribuisce la cittadinanza a chiunque nasca sul territorio, indipendentemente da quella posseduta dai genitori.
Funziona così in molti Stati del continente americano (USA, Canada, Messico Argentina, Brasile, ecc.), mentre diverse nazioni europee prevedono uno ius soli condizionato (Germania, Regno Unito, Belgio, Irlanda, Portogallo) o un doppio ius soli (Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Belgio, Grecia).
Nessuna di queste possibilità è prevista dalla legge italiana e nulla cambierebbe con quanto proposto dalla consultazione dell’8 e 9 giugno.
Differenti sono anche le proposte in discussione per il cosiddetto ius scholae, ovvero la possibilità di ottenere la cittadinanza dopo aver completato un ciclo di studi, stabilito in determinati anni (in Europa forme simili sono attuate da Grecia, Portogallo, Slovenia, Lussemburgo).
Il referendum riguarda le persone straniere che risiedono legalmente in Italia da almeno 5 anni, indipendentemente dall’età, dal percorso di studi o dal luogo di nascita.
Inoltre, non incide neppure sugli altri requisiti già richiesti dalla legge, che rimangono tutti obbligatori (e cioè, conoscenza della lingua italiana, possesso negli ultimi anni di un adeguato reddito, pagamento regolare delle tasse, assenza di precedenti penali e di motivi ostativi legati alla sicurezza della Repubblica).
Di conseguenza, se la proposta di abrogazione venisse approvata non verrebbe introdotto un nuovo diritto, ma si andrebbe a rendere più accessibile quello esistente, abbassando la soglia temporale richiesta.
Come funziona nei maggiori Stati UE?
Il requisito dei 10 anni di residenza attualmente previsto in Italia è tra i più alti in Europa, considerato che poi a questo si vanno a sommare anche i lunghi tempi di attesa per la valutazione della domanda da parte della pubblica amministrazione (2 anni prorogabili a 3), con una frequente dilatazione del periodo ad almeno 15 anni.
Sul requisito della residenza numerosi Paesi dell’Unione Europea prevedono tempi più brevi.
La Germania dal 2024 lo ha ridotto a 5 anni; in Francia sono richiesti 5 anni, diminuiti a 2 per chi ha studiato nel Paese; nei Paesi Bassi sono richiesti 5 anni di residenza continuativa; 5 anni anche in Portogallo; in Spagna servono 10 anni, ma vengono ridotti a 2 per cittadini di Paesi con legami storici e culturali (latinoamericani, Filippine, Andorra e Guinea Equatoriale).
Le ragioni del SÌ
Secondo i sostenitori del SÌ, il dimezzamento dei tempi avrebbe effetti positivi sul processo di integrazione, consentendo un giusto accesso ai diritti e aumentando il senso di appartenenza verso la comunità.
Ciò favorirebbe la partecipazione democratica, l’inclusione e anche la stabilità giuridica per milioni di persone che lavorano, studiano e pagano le tasse in Italia senza poter accedere agli stessi diritti dei cittadini italiani.
La normativa in atto risulta sproporzionata e discriminatoria; richiedendo agli adulti extracomunitari il doppio degli anni di residenza rispetto alle regole in vigore prima del 1992 si producono risvolti negativi anche nei confronti dei loro figli minori, che debbono aspettare parecchio tempo prima di poter accedere alla cittadinanza.
Non è vero, infatti, che in Italia se ne rilasciano di più che altrove, poiché in altre nazioni alla fattispecie dello ius sanguinis si sommano ulteriori diritti, riconosciuti con ius soli o ius scholae, che invece da noi non sono previsti.
Con la proposta referendaria si creerebbe un sistema più equo e attinente alla realtà della nostra società, allineando l’Italia agli altri Paesi europei, peraltro senza andare a modificare gli ulteriori criteri necessari per l’ottenimento, già previsti dalla legge.
Le ragioni del NO
Per i sostenitori del NO, la normativa attuale e già adeguata, poiché in Italia si rilasciano un numero di cittadinanze molto alto rispetto ad altri Paesi UE.
Con il dimezzamento dei tempi si corre il rischio di attribuirle troppo facilmente a soggetti che non abbiano ancora dimostrato un sufficiente livello di integrazione.
Un periodo di 10 anni fornisce maggiori garanzie sulla stabilità dello straniero e sull’effettiva volontà di aderire ai valori della nostra Costituzione.
Un’eccessiva riduzione potrebbe trasformarsi in una sorta di sanatoria generalizzata, senza garanzie reali.
Infine, un aumento immediato delle richieste potrebbe mettere sotto pressione la macchina amministrativa, già oggi gravata da tempi lunghi e procedure complesse.