Un episodio controverso avvenuto in un ristorante di Pescara ha alimentato il dibattito sollevato interrogativi: negato l’ingresso a una bambina con una maglietta della Lazio, si scatena un putiferio sui social con polemiche molto accese.


La questione infatti, uscita dalla bolla social, riguarda anche più nello specifico il diritto di accesso ai luoghi aperti al pubblico e sulla legittimità di eventuali restrizioni legate all’abbigliamento. La vicenda ha coinvolto una famiglia in vacanza a Montesilvano, in provincia di Pescara.

Il caso: ristorante nega l’ingresso a una bambina con maglietta della Lazio

Protagonista involontaria della storia è una ragazzina di 13 anni, originaria di Civita Castellana, che si è vista negare l’ingresso in un ristorante perché indossava un cappellino e una maglietta della Lazio. Secondo quanto raccontato dai genitori, il personale del locale – il Lido Oriente – avrebbe invitato la giovane a togliere gli indumenti riconducibili alla squadra biancoceleste, pena l’esclusione dal locale. L’episodio ha subito fatto il giro del web, scatenando reazioni indignate e attestati di solidarietà, in particolare da parte della tifoseria laziale. La famiglia è stata anche invitata a Formello, centro sportivo della società capitolina.

La madre della ragazza, Tiziana, ha poi cercato di ridimensionare i toni: «Un episodio spiacevole, certo, ma per noi si chiude qui. L’affetto ricevuto ci ha aiutati a superare la delusione».

Le scuse e la replica pubblica

A poche ore dalle polemiche, è arrivata la presa di posizione dei gestori del Lido Oriente, che hanno smentito qualsiasi intento discriminatorio e hanno offerto pubblicamente le proprie scuse: «Ci dispiace per quanto accaduto. Non siamo quel che viene raccontato. Invitiamo la famiglia a tornare da noi: la bambina potrà indossare ciò che desidera, per noi sarà sempre la benvenuta». Secondo la versione del ristorante, la persona che avrebbe vietato l’ingresso non sarebbe un dipendente né il titolare, ma qualcuno che si sarebbe indebitamente qualificato come tale.

Nel frattempo, i responsabili del locale hanno denunciato di aver ricevuto minacce gravi, tra cui intimidazioni di morte e minacce di incendio, tanto da recarsi in Questura per sporgere denuncia.

Diritto d’ingresso, abbigliamento e discriminazione: una riflessione tra norme e prassi

L’episodio, al di là del singolo caso, pone interrogativi importanti di carattere giuridico e sociale. In Italia, i locali aperti al pubblico, come ristoranti, bar, alberghi e negozi, rientrano nella categoria dei luoghi “di pubblico esercizio”. Sebbene siano di proprietà privata, offrono servizi a chiunque, con una funzione assimilabile a quella di un servizio pubblico. Questo implica il rispetto del principio di non discriminazione nei confronti dell’utenza.

A stabilirlo è l’articolo 187 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), che prevede l’obbligo, per gli esercenti, di non rifiutare ingiustificatamente la prestazione del servizio nei locali aperti al pubblico. In sostanza, il titolare di un pubblico esercizio non può impedire l’ingresso o il servizio sulla base di elementi arbitrari o discriminatori, come il tifo calcistico, l’abbigliamento non offensivo, il genere, l’origine etnica, l’orientamento sessuale o le convinzioni religiose.

A ciò si aggiungono le disposizioni del Codice Civile, in particolare l’articolo 2043, che disciplina il risarcimento del danno in caso di comportamento illecito, compresa la discriminazione. Anche il Codice delle Pari Opportunità (D.lgs. 198/2006) vieta atti discriminatori, seppur con focus principale sull’ambito lavorativo e sociale, ma i principi sono estendibili anche al trattamento riservato ai consumatori.

Contesti in cui i gestori possono imporre un “dress code”

Al contrario, ci sono contesti in cui i gestori di luoghi pubblici o aperti al pubblico possono imporre un codice di abbigliamento, purché questo sia giustificato da esigenze funzionali (come la sicurezza, il decoro o il rispetto di una certa atmosfera) e sia reso noto in modo preventivo – ad esempio attraverso cartelli visibili all’ingresso o regolamenti consultabili. È il caso, ad esempio, di alcuni locali notturni o ristoranti di alta fascia, che talvolta richiedono abiti formali. Tuttavia, anche in questi casi, il divieto deve essere proporzionato, non discriminatorio e applicato in modo coerente a tutti gli avventori.

Nel caso specifico di Pescara, vietare l’ingresso a una minorenne per il solo fatto di indossare una maglia della Lazio appare difficilmente giustificabile, soprattutto se non esisteva un regolamento scritto o un dress code preventivamente comunicato. Inoltre, l’abbigliamento sportivo – in particolare quello di una squadra di calcio – non rientra automaticamente nelle categorie di indumenti indecorosi o offensivi, a meno che non contenga messaggi contrari all’ordine pubblico o al buon costume.

Una questione che va oltre il tifo

Questo episodio riflette, infine, una questione più profonda che riguarda il clima di polarizzazione crescente nella società italiana, anche su temi apparentemente banali come il tifo calcistico. Se l’identità sportiva diventa un criterio di esclusione da spazi pubblici, si rischia di legittimare comportamenti discriminatori inaccettabili. Ancora più grave è quando a farne le spese sono i più giovani, come in questo caso.

Il diritto di esprimere la propria appartenenza sportiva, religiosa o culturale attraverso l’abbigliamento è una forma di libertà riconosciuta dalla nostra Costituzione (art. 21 e 3), e limitarla senza motivo fondato rappresenta un vulnus non solo giuridico, ma anche etico.

Sarebbe auspicabile, in casi simili, che l’educazione al rispetto reciproco venga prima di qualunque regola interna. Perché l’unica “maglia” che dovrebbe contare davvero, nei luoghi pubblici, è quella del rispetto per la libertà degli altri.