Nel dibattito pubblico italiano si sono diffusi, con crescente insistenza, slogan come “cittadinanze facili”, “business della cittadinanza” e “passaporti facili”.
Una narrazione suggestiva, spesso scandalistica, alimentata da trasmissioni televisive e articoli che descrivono il riconoscimento della cittadinanza italiana per ius sanguinis come un varco spalancato, a disposizione di chiunque sia disposto a pagare qualche migliaio di euro pur di “ottenerlo”.
Ma guardando da vicino la realtà dei fatti, ci si accorge che di “facile” c’è ben poco. Anzi, si tratta di un percorso complesso, lungo, costoso e irto di ostacoli. Viene da chiedersi: chi trae davvero vantaggio da questa macchina burocratica? E quanto costa, in termini concreti, il diritto alla cittadinanza italiana?
- Un business per tutti, tranne che per i richiedenti
- Diritto o privilegio? Il contributo ad personam discrimina l’accesso ai diritti dei meno abbienti
- Un diritto, non un privilegio. Ma a quale prezzo?
- Il paradosso di “colpire tutti per educarne solo alcuni”
- Una riforma necessaria: trasparenza, investimenti, controllo
- Il coraggio di dire la verità: l’etica non si predica.
Un business per tutti, tranne che per i richiedenti
È comodo puntare il dito contro studi legali, intermediari e agenzie che offrono pacchetti “chiavi in mano” per ottenere la cittadinanza italiana iure sanguinis. Meno comodo è ammettere che anche lo Stato italiano trae da questo fenomeno un beneficio economico tutt’altro che marginale.
Con la Legge di Bilancio 2025, i costi per la presentazione delle richieste non solo sono aumentati ma ora si applicano individualmente per ogni domanda, sia presso il Consolato, sia al Comune, sia in Tribunale. In dettaglio:
– Diritti consolari: aumentati da 300 a 600 euro .
– Domande ai Comuni: fino a 600 euro .
– Ricorsi in Tribunale: contributo unificato di 600 euro per ciascun ricorrente, anche nel caso in cui la domanda venga presentata congiuntamente da più parti.
Una stretta che sembra avere l’intento e l’effetto di scoraggiare le domande provenienti soprattutto da Paesi economicamente svantaggiati, come molti dell’America Latina.
Eppure, nonostante gli incassi crescenti, lo Stato non reinveste per migliorare i servizi: i consolati restano sotto organico, i Comuni privi di risorse, i tribunali sovraccarichi e carenti di personale.
A cosa servirebbe allora un ulteriore aumento — si paventa già di un passaggio a 700 euro — se non a comprimere ulteriormente i diritti di chi non può permetterseli? A trasformare, di fatto, la cittadinanza italiana in un prodotto di lusso, un’appartenenza esclusiva riservata a pochi, come l’ingresso in un club d’élite?
Il cerchio si stringe, sempre più, ma sulle spalle dei richiedenti meno abbienti.
Diritto o privilegio? Il contributo ad personam discrimina l’accesso ai diritti dei meno abbienti
Già da tempo AUCI (Avvocati Uniti per la Cittadinanza Italiana), AGIS (Associazione Giuristi Iure Sanguinis) e oggi anche l’associazione NATITALIANI, denunciano il rischio che l’accertamento della cittadinanza si trasformi in un meccanismo discriminatorio.
Secondo queste Associazioni, il contributo obbligatorio di 600 euro introdotto dall’art. 106 della Legge di Bilancio rappresenta “una barriera ingiustificata che trasforma un diritto in privilegio, accessibile solo a chi può permetterselo”. E i fatti parlano chiaro: l’aumento dei costi non ha risolto i problemi, li ha solo scaricati sui richiedenti, specialmente quelli più fragili.
Se davvero si voleva affrontare la questione della cittadinanza italiana in modo serio, e non con slogan e titoli di giornali e talk show, bisognava farlo con una riforma strutturale, discussa in Parlamento. Non con scorciatoie punitive come il DL 36/2025 o l’introduzione di misure fiscali atte a discriminare l’accesso ad un diritto (art. 106 appunto).
Un diritto, non un privilegio. Ma a quale prezzo?
Prima della Legge 74/2025, il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis era chiaramente sancito dall’art. 1 della Legge 91/1992: “È cittadino per nascita il figlio di padre o madre italiani”.
Eppure, nella pratica, far valere questo diritto significa – oggi più che mai – affrontare anni di attesa, documentazione costosa, procedure opache, errori d’ufficio e scarsa trasparenza.
Chi si affida ai consolati all’estero può aspettare anche 10 anni per un appuntamento. Da qui il proliferare di “agenzie specializzate” che assistono i richiedenti nell’affrontare una burocrazia labirintica e spesso ostile. E con la crescita della domanda, alcune di queste sono passate al marketing aggressivo, arrivando persino a proporre “Black Friday della cittadinanza”.
Ma dov’è il vero scandalo? Nello stile discutibile di alcune campagne commerciali o nel fatto che lo Stato, incapace di offrire un accesso equo e funzionale a un diritto fondamentale, ha lasciato che il privato occupasse il vuoto?
Il paradosso di “colpire tutti per educarne solo alcuni”
Nel solo 2023, sono state riconosciute circa 190.000 cittadinanze iure sanguinis – più di quelle ottenute per residenza (77.000), matrimonio (22.000) o genitorialità (59.000). Un numero che ha generato allarme e preso a pretesto dal Governo per utilizzare la modalità della decretazione d’urgenza per motivi di sicurezza nazionale (DL 36/2025).
Con l’approvazione della Legge 74/2025, si è introdotto un limite alla trasmissibilità oltre la seconda generazione, restringendo drasticamente l’ambito dello ius sanguinis. Il tutto accompagnato da una campagna mediatica che ha equiparato questo diritto a un mercato senza controllo.
Sì, esistono storture e abusi. Ma la soluzione è davvero colpire tutti, senza distinguere tra chi agisce nel rispetto della legge e chi no? Tra chi ha legami autentici con l’Italia e chi no? Tra diritto e opportunismo?
Una riforma necessaria: trasparenza, investimenti, controllo
Se l’obiettivo fosse stato davvero tutelare l’interesse pubblico contro abusi o fenomeni di commercializzazione dei passaporti italiani, il Governo avrebbe potuto intervenire in altri modi ad esempio:
- Rendendo più chiare e trasparenti le fase del procedimento;
- Introducendo strumenti digitali accessibili per semplificare adempimenti come le trascrizioni;
- rafforzando il personale nei Consolati, nei Comuni, nei Tribunali;
- istituendo un sistema di monitoraggio indipendente, che tuteli i diritti e prevenga gli abusi.
Servirebbe una visione di lungo periodo, non una stretta emergenziale che colpisce indiscriminatamente. La cittadinanza non è una concessione né un prodotto da vendere: è un diritto che va accertato con rigore, ma anche con equità, efficienza e trasparenza.
Il coraggio di dire la verità: l’etica non si predica.
In definitiva purtroppo nel sistema italiano della cittadinanza ius sanguinis non c’è proprio nulla di “facile”. Certo le norme – purché non in contrasto con la Costituzione – possono e devono evolversi adattandosi ai tempi. Ma il cambiamento, l’evoluzione, deve valere per tutti, anche per l’apparato statale.
Perché dovremmo accettare passivamente burocrazia inefficiente, ritardi cronici, cattive gestioni, accompagnate da narrazioni distorte e scelte politiche miopi?
Se vogliamo davvero distinguere tra chi ha diritto e chi abusa, servono istituzioni capaci di garantire chiarezza e legalità. Non nuove norme confuse che genereranno ulteriore caos e migliaia di ricorsi.
Non servono leggi punitive né campagne mediatiche costruite ad arte per nascondere problemi atavici dell’Italia. Non ha senso rifugiarsi nell’illusione di un’italianità pura e chiusa, proprio mentre il Paese deve fare i conti con l’inverno demografico.
Il vero scandalo non sono i “passaporti facili”, ma il fatto che lo Stato continui a incassare dai procedimenti di riconoscimento della cittadinanza senza rendere efficiente il sistema.
L’etica non si predica. Si pratica.
E ancora una volta, il Governo ha perso l’occasione di dimostrarlo.