Tutti gli strumenti per temperare la legge Fornero sino ad ora adottati restano ad appannaggio dei lavoratori occupati a tempo indeterminato presso imprese di maggiori dimensioni.
Prepensionamenti in ordine sparso. Ma comunque inutilizzabili da coloro che ne avrebbero maggiormente bisogno. E’ questo il quadro che emerge dopo l’approvazione della legge di stabilità che ha introdotto forme alternative alla flessibilità in uscita. Per limitare i danni della legge Fornero che dal 2012 ha innalzato bruscamente l’età pensionabile il legislatore ha introdotto negli ultimi anni, soprattutto nel 2015, diverse forme per spedire in pensione i lavoratori prossimi all’età pensionabile con diversi strumenti e modalità, tutti accomunati però dal tentativo di spostare a carico dell’azienda e/o del lavoratore la maggior parte dei costi economici dell’operazione.
Oltre all’esodo previsto dalla legge Fornero che consente alle imprese che mediamente occupano più di 15 dipendenti con eccedenza della forza occupazionale, di spedire in pensione, a seguito di accordi con le organizzazioni sindacali, i lavoratori senior a cui mancano non più di 4 anni alla maturazione del diritto alla pensione facendosi carico in cambio dell’intero costo dell’operazione, da quest’anno sono in vigore altri due strumenti di accompagnamento alla pensione.
Il primo è contenuto nell’articolo 41 del decreto legislativo che riforma degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro (dlgs 148/2015). Questo strumento consente, nell’ambito dei contratti di solidarietà espansiva, a quelle aziende che intendono assumere stabilmente nuova forza lavoro di trasformare, previo consenso degli interessati, in part-time il rapporto di lavoro dei dipendenti senior a cui mancano non più di due anni alla pensione di vecchiaia con la contestuale attribuzione di parte del trattamento pensionistico in modo da garantire loro un reddito mensile pari a quello erogato prima della trasformazione del rapporto di lavoro.
L’altra forma, contenuta nella legge di stabilità per il 2016, è in vigore dal 1° gennaio 2016 e consentirà ai lavoratori del settore privato a tempo indeterminato a cui manchino non più di tre anni dalla pensione di vecchiaia di optare, previo accordo con il datore, al part-time. In questa ipotesi il datore dovrà versare il differenziale della contribuzione dovuta tra l’orario pieno ed il part-time direttamente in busta paga al lavoratore (che non sarà tassato) mentre lo stato coprirà per intero la contribuzione per tale periodo.
Un’altra flessibilità a costo zero per lo stato arriverà per i lavoratori del pubblico impiego con l’esercizio della Delega sulla Pa. La legge 124/2015 prevede che i lavoratori vicini all’età pensionabile potranno optare per il part-time sino alla pensione ma dovranno pagarsi di tasca propria il differenziale contributivo rispetto all’orario pieno per non subire una riduzione della futura pensione.
La proliferazione di strumenti di questo genere, ormai quasi schizofrenica, è destinata in definitiva ad avvantaggiare solo chi è impiegato in imprese di maggiori dimensioni le quali, oltre a ridurre il costo della forza lavoro, possono allo stesso tempo sostituire con i contratti a tutele crescenti i nuovi assunti. Con il rischio di esacerbare le disparità sia con i disoccupati senior, sia con i lavoratori che prestano attività lavorative in piccole e medie imprese nonchè con gli autonomi, le categorie che attualmente pagano il più alto prezzo della crisi e della mancanza di lavoro e che, ovviamente, non rientrano nel perimetro dei suddetti benefici.
Politiche previdenziali più oculate dovrebbero consigliare il legislatore a concentrare le risorse disponibili verso un sistema di flessibilità in uscita più equo, in grado di garantire un anticipo dell’età pensionabile soprattutto verso le fasce più deboli senza creare forme di pensionamento flessibile che si adattano alle esigenze di pochi, già peraltro, iper-tutelati.